Altrove: in un altro luogo

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Ombre

C’è una panchina sotto il portico che costeggia la piazza. Il Sole arriva da destra, taglia i mattoni e disegna un altro arco, caliginoso e opaco, sul volto pallido del muro. È l’ombra che si fa colore, gioca con i corpi e ne riproduce la superficie, alterandone la forma per abbandonarla subito dopo ad una più morbida e leggera inconsistenza. A lato della panchina, a occupare il solo spazio che gli occorre, un uomo. Attorno, il tempo che vibra nell’immobilità del pomeriggio.

Forse è l’ora calma delle 16. Troppo presto o troppo tardi per cominciare a fare qualcos’altro. L’ora di cui solo i vecchi e i cani randagi sanno godere. L’ora della fissità, che aborra il movimento, quando il caldo primaverile si posa sulle spalle come un abbraccio di morte. La pavimentazione in marmo restituisce la luce gialla di una piazza senza altre ombre. Altri corpi da poter inghiottire. Solo lui, il cappello di paglia e un occhio di passaggio che ne cattura l’immagine.

Marco

Marco ha ventisei anni e una vita a Bologna che, nonostante tutto, non vuole e non può lasciare. Una laurea in Economia in tasca e tutto il tempo di chiedersi come spenderla, dietro il bancone di una rosticceria che non può assicurargli che l’impiego nel fine settimana. Il puzzo di fritto gli entra nelle narici, tra i vestiti e sotto le unghie.

Sono da poco passate le due, ma a Piazza San Francesco il tempo non ha fretta. Ciondola bighellone tra l’odore di paprika e curcuma dello sgabuzzino turco in cui fabbricano Kebab. Salta sul tizzone acceso di quella che doveva essere l’ultima sigaretta; improvvisa distratto una capriola tra il fumo che, come la catena del dna, sale attorcigliandosi verso la luce, ed ecco lì, sul campanile, a scandire la consuetudine algebrica che gli è stata assegnata. È già lunedì da un pezzo, ma non è il tempo delle domande. Marco non può, non deve farsele. Frigge, mentre già assapora la doccia delle sei.

Carmen

Carmen di anni ne ha trenta e da poco ha ripreso il lavoro da stagionale. «L’ultimo» si dice, mentendo. Perché ha trent’anni e alcuni discreti progetti. Ha studiato, lasciato e poi ha ripreso. «La parabola è più o meno la stessa di quella con Matteo». Scherza, sorride e abbassa gli occhi. Si vogliono sposare. Domani. Un giorno, non si sa bene quando.

Dietro i singhiozzi di un amore costretto a conservarsi eternamente giovane, la precarietà d’una vita che non t’appartiene totalmente. Programmare e realizzare sono due atti su due sponde lontane. In mezzo il tempo denso del sogno e del reale. Le aspettative verso te e verso gli altri. Il peso insuperabile del dubbio che non si faccia abbastanza.

I numeri

Restare. Tornare. Andarsene. In ogni caso, resistere. Senza collocazione. Vicino, lontano, nello stesso posto da sempre, ma resistere. Siamo in Basilicata, ma questo racconto non sarebbe poi tanto diverso da quello di un altro sud; Cosenza, Nuoro, Isernia. A dare concretezza alle storie, i numeri, nella fissità spiazzante di un’Italia in retromarcia da decenni. Nel 2021 il volume dei trasferimenti di residenza interni al Paese è stato pari a 1 milione 423mila.

La fascia d’età maggiormente interessata? Quella tra i 25 e i 34 anni, svela Istat: 31mila in totale, di cui oltre 14mila con una laurea o un titolo superiore alla stessa. A partire, un laureato su tre, con un tasso che sale fino al 47,5% per i laureati di secondo livello. «Un addio amaro», denuncia AlmaLaurea, che sembra confermare un fenomeno inarrestabile. Contribuire allo sviluppo di quella parte del proprio Paese si rende sempre più difficile. La soluzione? Fino ad oggi è stato drenare e assecondare quel flusso. Raccontarlo come il naturale risvolto di una vita da immaginare altrove.  

Cinquecentomila residenti in meno in dieci anni

Un quadro più completo lo forniscono le indagini sul lungo periodo. Dal 2012 al 2021 sono stati pari a 1 milione 138mila i movimenti in uscita dal Sud e dalle Isole verso il Centro-Nord. Solo 613mila sulla rotta inversa. Tradotto? Due conti e il saldo è chiaro. Il Mezzogiorno ha subito una perdita netta in dieci anni di 525mila residenti. Il saldo migratorio lucano è quello più in rosso di tutti, – 4,7‰. Ne consegue che, nonostante il ricambio con l’estero, il Centro-Nord recupera giovani laureati meridionali, invertendo il proprio bilancio negativo e trasformandolo in guadagno di popolazione.

«Le giovani risorse qualificate provenienti dal Mezzogiorno costituiscono dunque una fonte di capitale umano per le aree maggiormente produttive del Nord e del Centro del Paese e per i paesi esteri» aggiunge Istat nel report pubblicato a febbraio di quest’anno. Capitale umano, risorse economiche, crescita, il resto va da sé. La matematica che si fa parola e vita. Realtà a cui non ci si può sottrarre.

Il paradiso della terza età?

E se l’Italia tutta invecchia, in barba al tanto declamato pericolo della sostituzione etnica, il Sud, in particolare, s’incartapecorisce su sé stesso, avvizzendosi lentamente, inaridendosi senza possibilità di salvezza. Nel 2021 per ogni bambino al di sotto dei 6 anni si contano 5,4 anziani. Questa la media nazionale, che sale a 6 in Basilicata. Ma ciò che porta definitivamente in luce l’avanzare deciso verso il baratro è quel numeretto chiamato “indice di dipendenza strutturale”. Il rapporto, moltiplicato per cento, tra la popolazione in età non attiva (0-14 anni e over 65) e quella in età attiva (15-64 anni). Se tra sette anni esso sarà pari, infatti, al 66% della popolazione lucana; nel 2050 sfonderà la soglia del 96%, con una età media superiore ai 53 anni.

Ma se ciò non ci qualifica di certo come centro propulsivo di giovani energie, non basta neanche a designarci come il paradiso per la terza età, tutt’altro. I dati raccolti dal Sole24ore ci dicono, infatti, sulla base di ben 12 parametri, che è Trento la provincia dove vivono meglio gli anziani. Matera e Potenza guadagnano rispettivamente il 51° e il 60° posto.

E per le altre categorie? È Siena ad aggiudicarsi il miglior piazzamento per i bambini; Crotone l’ultimo, tenendo conto di alcuni indicatori come asili nido, numero dei pediatri, retta della mensa scolastica, verde attrezzato e via dicendo. Ed in ultima analisi i giovani: migliore provincia Ravenna, peggiore Taranto. Non siamo un paese per ragazzi, dunque. Né per bambini e tanto meno per vecchi, volendo parafrasare il compianto Cormac McCarthy.

Resistere.

Restare. Tornare. Andarsene. Resistere, in ogni caso. Resistere, ma a che costo? Resistere per slancio, per sfida, per sventolare la bandiera del coraggio, per brandire lo spot dello “Io resto”. Resistere fino al prossimo lunedì o attendendo l’ultima fermata di un amore finito per mancanza di programmazione. Resistere per noia, per paura, perché altrimenti, cosa faccio? Resistere per sottrazione, perché se tutto se ne va e io resto, le briciole saranno le mie, tutte le mie, e ci farò un grande pane. Contro ogni opportunità di lavoro, contro ogni possibilità di crescita sociale, resistere per sé stessi, resistere perché diversamente non si riesce a fare.

Le risposte?

Le risposte? Si sono perse tra le pieghe del clientelismo. Tra le lenzuola calde di una politica che gioca a far la puttana. Tra le strette di mano e le pacche sulla spalla di assessori impegnati a difendere le concessioni balneari. Lusso per pochi, ma ottimo bacino elettorale. Tra le rassicurazioni d’appartenenza e di proprietà a un dato movimento: “è il nostro uomo, gioca e vince per noi”. In un meccanismo partitico che ha contagiato ogni ambito, dall’associazione parrocchiale alla gestione del chiosco nella villa comunale.

Si sono perse nel chiacchiericcio comune, nei contratti a chiamata, nei voucher, nelle stagioni a nero e negli studi dei professionisti che non fatturano. Nel lavoro non pagato o mal retribuito, perché tanto sei giovane e hai tutto il tempo davanti. Ma il tempo senza prospettiva è una casa senza finestre, buona per farci ballare i topi.

Si sono nascoste, forse, le risposte, tra i riccioli di polvere di una scuola che sembra assomigliare a un colabrodo. Un colabrodo che pure continua ad essere la boa di salvataggio di un posto fisso a cui si aspira senza alcun’altra aspirazione. Tra i padroni e i protagonisti del Terzo settore, nell’affidamento di quei servizi indispensabili garantiti sulle spalle dell’ultimo lavoratore. Nel buongiorno e nell’arrivederci dottore, nella busta che sfila senza neanche tanto scalpore.

Alla fine dei conti

La chiave? Per molti è conoscerne l’ingranaggio. Farsi furbi in un mondo di volpi. Sapere come e dove olearlo. Se si può, si deve. Per tutti gli altri? C’è la puzza di fritto, un figlio che non si può fare e una panchina da riempire. La scelta tra il tempo fermo di un Sud immobile e un biglietto Trenitalia. Per tutti gli altri, almeno conservare il diritto di alimentare e favorire un dibattito pubblico che non può non interrogarsi, rischiando di adagiarsi su sé stesso, trasformando in comoda rassegnazione un dato di fatto, strutturatosi come granitica convinzione. Resistere sì, ma meglio altrove.  

foto di Simone Iannuzziello

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