Fode. Ultima foglia d’autunno

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Da sempre, tutte le storie, dall’Odissea ai fratelli Grimm, nel racconto della finzione, hanno attraversato il tempo giungendo fino a noi, grazie alla forza comunicativa dei propri protagonisti. Da un lato l’ambientazione familiare o fantastica, catalizzatrice di sopiti e rasserenanti ricordi nel primo caso o di inaspettate emozioni nel secondo; dall’altro la trama coinvolgente che subito ti inghiotte e ti rispunta vuotato del bagaglio di domande con le quali eri partito. E infine la morale, esistente o inesistente che sia, di cui tutti abbiamo bisogno, al fine di ritrovarci, almeno tra quelle righe, vicini, grazie a un canale comunicativo in grado di consegnarci un significato massimo che ci accomuni e rassicuri.

L’ipotesi di partenza di queste righe è che anche il racconto del reale condivida con quello della finzione i medesimi punti cardine.

Un cadavere, un passante e una stazione. Decimo giorno di dicembre di un anno che si appresta a morire. Questi i soggetti di una storia anonima che passa tra le pagine dei giornali con la ritualità con cui le foglie gialle si staccano dagli alberi. L’uomo, trent’anni per Repubblica, ventisette per Avvenire, poco importa; non ha un nome, almeno fino a ventiquattr’ore dopo, troppo tempo per riaggiornare le cronache del giorno successivo. Lo farà solo un quotidiano locale, per non privare Fode Dahaba persino della propria identità, nato in Guinea e morto a Roma, capitale d’Italia e del Mondo.

Ma per tornare alla nostra ipotesi, dunque, nell’epoca dello storytelling, qual è la storia che si poteva raccontare e non è stata raccontata? Quella di Fode certo, muore lì con lui, tra i cartoni e le coperte di una vita da fuoriposto. In uno spazio che non è riuscito a trovare né da vivo, tra le strade di una città che l’ha rigettato, né tanto meno da morto, su una carta stampata affannosamente alla rincorsa dei trend topic di twitter.

Sullo sfondo di un annuncio d’agenzia, c’è un giornalismo che pone il proprio sguardo, tanto riverente quanto timoroso, alla SEO (tutte quelle attività volte a migliorare il posizionamento di un contenuto da parte dei motori di ricerca). A una notizia che si fa narrativa e che acquista valore di racconto solo laddove esso sia sintetizzabile in un’offerta di lettura che possa giungere, se non alla comprensione, quanto meno alla condivisione emotiva della stessa. Toccarne le corde. La pancia. Rimanere lì, fin quando si può, fin quando si deve. Uno scorrere di informazioni sempre più simili alle Instagram stories: una realtà complicata di cui è meglio raccontare solo un frammento, condensando il tutto in uno scatto che possa “sorprenderti”, quindici secondi al massimo, un altro tap e sei dall’altra parte. Un gatto miagola le canzoni di Baglioni, la Siria è lontana, lontanissima.

Fode, semplicemente, non rientra in questa giostra. Fa più notizia il cane che morde l’uomo o l’uomo che morde il cane? Questa è la prima regola che insegnano in tutte le scuole di giornalismo, la prima riportata su tutti i manuali. Fode non solo rientra nel primo caso, ma è anche un cane randagio, sporco e cattivo. Non fa parte di una categoria protetta: non è la lesbica cacciata di casa dai genitori, il crowdfunding e la rivendicazione della propria sessualità alla Vita in diretta. Non si nasconde, in questa vicenda, la spasmodica ed eccitante ricerca di un colpevole, ma solo misera tragedia: il freddo, la temperatura, la naturale biologia di un corpo che pian piano riduce la circolazione del sangue nelle zone più periferiche, poi la vasocostrizione, i brividi involontari e il cervello che ancora viene irrorato, protetto, il cuore che dapprima accelera i battiti, cercando di pompare più sangue, poi progressivamente, li riduce, amnesia e confusione, poi finalmente il coma e la morte. Sicuramente meno appeal di una toccata al culo fuori dallo stadio. In questo caso non ci sono crociate da fare contro una mascolinità aggressiva e irriverente, è stato il freddo, e al freddo non si può porre rimedio.

«La storia non è mai venuta a capo di un giudizio sulle responsabilità dei confronti della miseria» ho trovato scritto sulla copertina lisa di un vecchio libro d’Università, e oggi, rileggendolo, credo non ci sia nulla di più vero. La città è da sempre stata una plateale esibizione dell’ineguaglianza, un’ineguaglianza che ci scomoda non tanto per tutto ciò che moralmente tale concetto racchiude, bensì per l’impossibilità di efficientamento urbanistico che questa “variabile” comporta.

I senzatetto, i clochard, sono, secondo tale ottica, nient’altro che l’ostacolo al decoro urbano. Elementi d’arredo involontari delle nostre strade, diventati ingombranti, e per questo da “sistemare”, semplicemente, altrove, al fine di liberare uno spazio che possa ritornare ad essere, finalmente, solo nostro. I fuoriposto, non rispettano la partizione degli spazi urbani risultando, pertanto, inadeguati a quell’ordine che la società prefigge per sé stessa.

Fode, molto probabilmente, non aveva un lavoro, e dunque non era un produttore, ciò che rappresenta l’attuale unità di misura dell’essere sociale. E, sicuramente, non aveva una casa, lo spazio fisico che corrisponde, per dimensioni e qualità, al valore di quanto un soggetto produce. Secondo queste stesse direttrice Fode non era dentro, ma fuori dalla società. Per lo stesso motivo la morte di Fode non viene percepita come una sconfitta della società, poiché essa si “attua”, tragicamente, (per il freddo e solo per il freddo), al di fuori della stessa.

Nello stesso libro di cui prima si parla dell’errata concezione della società come ovile, con il buon pastore alla ricerca della pecorella smarrita da riportare entro i confini di un sicuro recinto. Ma chi è a dover includere gli esclusi e quali sono i criteri sulla base dei quali vengono stabiliti questi confini? E se il recinto non ci fosse? Se la società fosse, invece, lì dove la pecorella si è smarrita, oltre il confine del recinto e delle case, sui marciapiedi, sotto i ponti e nelle stazioni?

Dove è l’uomo, lì è la società. Nessun dentro che per converso possa produrre un fuori. Nessun noi che possa presupporre un loro.  

«La società non può includere senza negare sé stessa. L’inclusione dell’altro non è né realizzabile né auspicabile. L’uso del termine non può riguardare le persone, sulle quali nessuno può esercitare alcuna sovranità, ma le azioni e le situazioni in cui siano chiaramente indicati i fini, i mezzi e diritti individuali».

In altri termini, in quella che noi definiamo epoca postmoderna, è la stessa società a rappresentare la macchina che produce tale sofferenza. Il meccanismo dell’integrazione non è nient’altro che quel sistema attraverso il quale la società si pone al riparo dalle proprie responsabilità presupponendo un dentro e un fuori, disegnandone i confini e rigettando coloro che ella, per prima ammala e poi raccoglie. Allo stesso modo, la povertà non può continuare a rappresentare il buco nero che inghiotte tutte le discussioni relative a tali problematiche individuali. Se il problema economico, infatti, è palese, non si può dimenticare che la questione è da affrontare in termini di organizzazione sociale, intervenendo sullo spazio e sul tempo di vita degli individui.

Giunti a questo punto della storia diventerebbe sempre più pressante l’eco dell’istruzione, come se aggiungere scuola, scuola e ancora scuola, ci salverebbe dallo spettro di un’indifferenza sempre più strisciante. D’altronde decenni di scolarizzazione non hanno fatto altro che educarci dentro trascurando sempre più tutto quello che sta fuori?

La risposta? Una politica che voglia e sappia cambiare il nostro consolidato modo di vivere, passando per una ridistribuzione della ricchezza senza paura di sradicare i vecchi privilegi acquisiti. Una politica che torni a guardare ai marciapiedi e qualcuno che, prima di ogni altra cosa, torni a raccontarli.

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