bandiera ucraina

Disagio di pensiero

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Dall’altra parte del computer, mentre scrivo, asserragliato tra la Nuova Enciclopedia Pratica della Medicina, due anni appena più nuova di me, e il Devoto-Oli, versione 2007 con cd-rom incluso, a ricordarmi di quanto il mondo sia cambiato, seguendo una disposizione armocromaticamente studiata, al passo con la necessità instagrammabile del momento, c’è un libro ancora da leggere: Delitto e Castigo; sulla sovraccoperta la caricatura di Dostoevskij a privare la dicitura “edizione integrale” del timore imperante del primo approccio alla lettura. Colpa, condanna ed espiazione a soli tre euro e novanta, dove tre sta scritto in grande e novanta in minuscolo.

Lascio perdere e rimando nuovamente l’incontro. Faccio come la Bicocca «evito qualsiasi forma di polemica, soprattutto interna, in questo momento di forte tensione», poi magari cambio idea e faccio come Sala, «qualcuno ha sbagliato», ma per evitare la polemica sulla polemica, tra corsi rinviati e la colpa di essere russi, morti o vivi poca importa, riavvolgo il nastro e torno al punto di partenza, a chiedermi se sia meglio dire che il soprano o la soprano russa si è ritirata dall’esibizione sul palco della Scala perché «obbligare gli artisti a denunciare la propria patria non è giusto». Rifletto. Dopo lunghi corsi e ricorsi opto per la schwa, certa di non scontentare nessuno, ché la lingua italiana l’hanno sempre stuprata tutti senza farsi troppi dilemmi, con buona pace dell’Accademia della Crusca.

Non ho davvero niente di meglio da fare e apro Facebook, che Dio ci scampi e ci liberi. Scorro velocemente: “In arrivo i calabroni killer, ma tranquilli non sono pericolosi”, questa storia me ne ricorda un’altra, ma sorpasso e vado avanti. Radio Deejay, intanto, ci tiene a farmi partecipe del fatto che Cremonini per Sanremo abbia perso otto chili; mi riprometto che l’anno prossimo ci provo anch’io, ad andare al festival, ben inteso. Poi, finalmente, approdo a ciò che volevo leggere.

  • Utente medio number one scrive: «se la Russia avesse avuto davvero cattive intenzioni allora avrebbe già raso al suolo l’intera Ucraina e sterminato tutti i civili». Non sono soddisfatta, devo contestualizzare e per farlo faccio click sul nome di utente medio number one: scorro, scorro e mi accorgo che non è improvvisamente impazzito, ma è sempre stato così. Stronzo.
  • Non ancora abbastanza appagata continuo il mio scrollare, ed eccolo, utente medio number two, che lavora presso sé stesso con residenza a Palm Beach, inneggia Santa Madre Russia, se la prende con la Nato e chiede a gran voce, con l’orgoglio dell’ultimo vero no-vax, perché adesso le manifestazioni in piazza si possono fare, in barba alle restrizioni sul covid; la cosa mi riporta al calabrone killer innocuo di cui sopra, ma preferisco non dilungarmi e passo oltre.
  • Inciampo in utente medio number three che giustamente avvalora le tesi del mega complotto statunitense e si domanda il motivo per cui si sanziona una nazione che con garbo e riservatezza è pronta a sedersi al tavolo delle trattative.

Non fa una piega e io per oggi mi sento ormai sazia, ma la Murgia che è in me si risveglia facendomi notare che ho esaminato solo profili di uomini, o presunti tali, voglio specificare per mantenermi il più fluida possibile e non offendere nessuno. Vado alla ricerca di donne, o presunte tali. Ed eccola.

  • Utent* medio number four (per par condicio una volta la schwa e una volta l’asterisco) che spiega di quanto sia delusa e stanca di questo buonismo spicciolo e che Putin non è certo un santo, ma la Nato. E niente, la professoressa termina con “ma la Nato” lasciando a i posteri l’ardua sentenza. E allora, ad onor del vero, della Murgia e del femminismo imperante, mi accorgo che siamo stronze uguali.

Alzo lo sguardo, Dostoevskij è lì, nella sua copertina arancione. Mi faccio la più stupida delle domande tra tutte le domande stupide: «cosa avrebbe fatto lui dentro il nostro tempo?». Mi rispondo che mi sto fondendo il cervello e che probabilmente il povero Fëdor si sarebbe suicidato o, più semplicemente, per buona grazia, non sarebbe proprio nato.

Provo a non cedere alla mia mania di classificazione, ma è più forte di me, peggio che con l’armocromia, e allora riprendo a scrollare fino a decidere che si può suddividere il cluster di Facebook in tre sottoinsiemi.

  1. I finti fascisti, troppo stupidi per esserlo veramente, che seguono la Meloni e se la prendono con la Nato.
  2. I fascisti veri, troppo intelligenti per definirsi tali, che ci spiegano come sia ora di aprire le braccia ai profughi veri. 
  3. I comunisti (inutile specificare tra finti e reali, perché semplicemente hanno smesso di esistere da tempo ma ancora non se ne sono accorti) che, forti della loro maglietta strappata e del papà che gli paga da vent’anni gli studi a Bologna, dimenticano che Putin è da anni il principale riferimento dell’estrema destra, confondono l’UE con la Nato, la reazione occidentale di oggi con il golpe cileno e nella zuppa ci mettono pure l’Iraq, che non guasta mai. A proposito di zuppa, poi c’è Porro, ma Porro è un mondo a sé e questa è un’altra storia.

Per un attimo ritrovo me stessa e mi dico che dovrei smetterla di sorprendermi, di rilevare assurdità in ciò che oggi costituisce la misura del nostro tempo: la primaria necessità di esprimersi su tutto, terrorizzati che in quel tutto potremmo confonderci, o peggio, essere confusi con qualcun altro. Secondo il World Economic Forum gli argomenti più discussi nell’ambito alternativo, e oggetto di cattiva informazione, sono la salute, l’economia, il cambiamento climatico e, pensate un po’, la geopolitica. Tutto ciò che tendenzialmente ci spaventa e per cui trovare una risposta implica qualcosa di più rispetto ad andare a cercarla su Facebook, come la conferma del proprio pregiudizio iniziale.

«Le nostre principali fonti di informazione sono sempre più progettate per riflettere il mondo come già lo vediamo – sentenziò Samantha Power, rappresentante Usa per le Nazioni Unite sotto la presidenza Obama – ci danno il comfort delle nostre opinioni, senza il disagio di pensiero».

Potrebbe forse essere questa la chiave di una guerra alle porte dell’Europa? Aver evitato costantemente il disagio di pensiero? Aver asportato col bisturi, con un taglio chirurgico da maestri, tutte quelle questioni che avrebbero potuto mettere a disagio noi, la nostra economia, il nostro potere contrattuale, minando il nostro statico e comodo equilibrio?

Allora è bene ricordare all’utente medio numero cento, che sprezzantemente chiede, a non si sa bene chi, il motivo per cui le altre guerre non attirino la nostra attenzione, corredando la cauta osservazione con emoticon di dollari, che l’opinione pubblica siamo noi, oggi come ieri, ed i governi non sono nient’altro che lo specchio del nostro brancolare nel buio a mani tese pronte a dar cazzotti. È bene domandarci il perché delle nostre non reazioni ai finanziamenti partiti dal Cremlino verso i leader estremisti, a qualche avvelenamento qua e la, alla guerra in Georgia e al sostegno a Bashar al-Assad in Siria. A una strategia illiberale messa in atto per destabilizzare le società aperte, perché sì, rispondo ad utente number two che ci invita a guardare i regimi di casa nostra, che noi, per amor del vero, siamo una società aperta.

La formazione dell’opinione pubblica e la costruzione della conoscenza sono concetti sempre più mediati dal web.

«Il rischio globale della disinformazione massiccia digitale si pone al centro di una costellazione di rischi tecnologici e geopolitici che vanno dal terrorismo ai cyber attacchi al fallimento della governance globale».

Così recitava il World Economic Forum in un rapporto del 2013. E se proprio, ancora oggi, questa serie di domande non siamo in grado di porcele, presi nel marasma della cultura partecipativa, finta almeno quanto i comunismi del XXI secolo, schiacciati tra l’autonomia narrativa e il cospirazionismo, allora il buonismo spiccio, caro utent* number four potrebbe essere un’alternativa. L’alternativa per quei bambini che sotto le bombe non si interrogano sugli sbagli della Nato, ma che come tutti i bambini sotto le bombe, semplicemente, piangono.

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