Bambino denutrito

Fame

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Fame. Non è appetito. Bensì, la sensazione viscerale stimolata dal bisogno di cibo. «Desiderio imperioso», suggerisce l’enciclopedia. Desiderio o estrema necessità? Desiderio che non si può far a meno di desiderare. Dolori. Deficienze croniche. Morte. La fame è la distanza tra la pancia del nostro frigorifero e quella gonfia di un bambino a cui è negato il diritto alla vita.

La fame che rischia di colpire, secondo l’ultimo rapporto di Save the Children, pubblicato oggi, 29 luglio 2020, mezzo milione di bambini libanesi, siriani e palestinesi nella zona della capitale Beirut, a causa della perdurante crisi economica.

«Vedremo bambini morire di fame già prima della fine di quest’anno» informa Jad Sakr, rappresentante in Libano della ong internazionale che si occupa di diritti dell’infanzia.

E se non li vedessimo, basterebbe contare. Nel mondo, ogni giorno, settemila bambini sotto i cinque anni muoiono a causa della malnutrizione. Significa cinque bambini al minuto. Un bambino ogni dodici secondi. Basterebbe contare, come si contano le calorie bruciate sul monitor del tapis roulant e quelle appuntate sui nostri yogurt dietetici. Basterebbe contare per averne un’idea. Per arrivare alla conclusione che non c’è una parte sbagliata del Mondo in cui nascere, semplicemente perché nascere non può essere uno sbaglio. Basterebbe contare per capire che oltre gli scaffali della nostra frutta fresca, del caffè, oltre i distributori delle pompe di benzina, delle nostre scarpe alla moda, dietro gli schermi dei nostri cellulari da seicento euro; dietro le nostre guerre e i finti ideali, c’è lo sfruttamento di risorse che non ci appartengono. Il mito di un Occidente che si è fatto da solo e che, quando ne ha voglia, se lo ricorda, piange e aiuta. Pietà, misericordia, carità.

Dietro le manifestazioni di piazza antiabortiste che si crucciano per la rimozione di un embrione, dietro ai natali che celebrano un Cristo nato al freddo in una stalla, dietro la benevolenza e ai mai più, ci siamo noi. Noi e le nostre magnifiche contraddizioni. Il nostro particolare ed esclusivo modo di esprimerci, di combattere crociate ideologiche non oltrepassando l’uscio di casa. Ci siamo noi, i fortunati prescelti. E, infine, dietro di noi, ci sono loro. Ciò che resta dalla sottrazione di noi stessi. L’olocausto per cui nessuno ha costruito forni in cui bruciare le colpe. Per cui non sarà indetto alcun processo di Norimberga, perché nulla si è fatto e perché il nulla non può essere condannato. L’esclusione di un tessuto vitale che sembra non appartenerci, ma a cui, per converso, apparteniamo. L’esclusione di ciò che non vediamo, le vite, che prima di cessare, abbiamo smesso di contare.

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