Uomo in mare da quindici giorni

Uomo in mare, umanità alla deriva

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Sullo sfondo il mare. Tanta acqua. Tanto blu. Un blu tanto più intenso quanto più profondo. Blu Mediterraneo. Un gommone grigio spezza la monocromia. Tra i tubolari del gommone, un uomo, o quello che ne rimane. La parte superiore del corpo sembra essere intrappolata nell’imbarcazione mezza affondata.  Le gambe, divaricate, abbandonate alle onde.

È il 30 giugno scorso quando la Sea Watch Italy pubblica su twitter quella che oggi viene definita, dai molti, una “foto simbolo”. Come se la realtà non fosse ancora abbastanza, e avessimo, dunque, bisogno dei simboli per meglio interpretarla.

«Noi siamo quel che facciamo. – scriveva Leonardo Sciascia – Le intenzioni, specialmente se buone, e i rimorsi, specialmente se giusti, ognuno, dentro di sé, può giocarseli come vuole, fino alla disintegrazione, alla follia. Ma un fatto è un fatto: non ha contraddizioni, non ha ambiguità, non contiene il diverso e il contrario».

Bene. La realtà, i fatti appunto, ci dicono che il corpo di quell’uomo è abbandonato in balia delle onde da più di quindici giorni. Probabilmente vittima di uno dei naufragi avvenuti tra il 29 e il 30 giugno. Non sappiamo come sia morto. Forse di stenti, sotto il sole cocente, dopo aver tentato di aggrapparsi a ciò che rimaneva del gommone. Ciò che è certo è che il suo corpo è lì. Adesso.

«Un corpo in mare da due settimane a largo della Libia. Nessuno vuole dargli una degna sepoltura. Quattro avvistamenti e quattro alert inviati da Seabird. Ma le guardie costiere di Italia, Libia e Malta li hanno ignorati» commenta la Caritas. Questi sono i fatti.

Quello che rimane dopo i fatti, dopo la foto di un uomo alla deriva, è la deriva dell’umanità stessa. Un’umanità che ai tempi dell’antica Grecia asseriva tra i supremi doveri dei vivi, quello di dare una degna sepoltura ai morti. Un’umanità che ora si sgretola su sé stessa. Implode e dimentica. Un’umanità che non recupera. Ma che, al contrario, con fredda indifferenza, abbandona.

La stessa indifferenza, legata alla ormai diffusa mistificazione dei fatti, che porta a dichiarare la Libia come un porto sicuro. Che porta la Camera ad approvare, ieri, 16 luglio 2020, i rifinanziamenti delle missioni militari internazionali, compresi quelli allo stato nordafricano.

È in tale contesto che Matteo Orfini, deputato PD, parla di «offensiva ipocrisia». «Qualche anno fa avremmo potuto dire di non sapere. Oggi no. Oggi sappiamo che dire Guardia Costiera libica significa dire traffico di essere umani, stupri, torture e omicidi. Finanziare la Guardia Costiera libica significa finanziare chi stupra, chi tortura, chi uccide».

401 si. 23 no e un’astensione. Questi i numeri che sbloccano i 58 milioni di euro già approvati dal Senato lo scorso 7 luglio, in relazione alla missione in Libia. Dieci di questi sono direttamente destinati alla missione bilaterale di assistenza alla Guardia Costiera libica. Che per quello che oggi ci dicono i fatti, che non contengono il diverso e il contrario, sono dieci milioni destinati ai trafficanti di uomini.

Erasmo Palazzotto, deputato LEU SI, parla di «insostenibilità morale». Eticamente insopportabile, dunque, proprio come il corpo di un uomo in mare lasciato in pasto ai pesci. Proprio come tutti gli altri corpi che non abbiamo fotografato, di cui non abbiamo né scritto né parlato. I corpi per i quali non ci siamo indignati. Tutti gli altri corpi, e soprattutto, tutte le altre vite dei naufraghi del Mediterraneo. Ciò che c’era dietro, prima, del naufragio. Le storie di un’umanità, anch’essa, alla deriva.

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