Mandorle e miele: la storia della Cupeta

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Vittorio e Rosa

Vittorio Lacicerchia ha più di sessant’anni, anche se la voce ne racconta molto meno quando mi parla di una vita intera passata tra uova, zucchero, mandorle e farina.

«Ho cominciato subito dopo la terza media, a tredici anni, come garzone. L’obiettivo, di mio padre, non era tanto quello di indirizzarmi al mestiere, ma di salvarmi le ossa. Avendo io la brutta abitudine di rompermele». Sorride e continua a raccontare le prime esperienze nel laboratorio, poi la partenza per il militare. «Al ritorno ho ripreso a lavorare a Pisticci, alla Pasticceria del Centro. Trentacinque anni in tutto, fino alla chiusura nel 2019».

Rosa Iannuzziello di anni ne ha cinquantaquattro. I tempi, quelli in cui i padri decidevano per i figli, fondamentalmente gli stessi. L’inizio a sedici anni. A questi ne seguono altri trentatré nello stesso laboratorio dove Vittorio è ormai diventato pasticcere. Non è così che si misura il tempo? In numeri? Oltre a questi, oltre al tempo, c’è un lavoro che entrambi imparano a fare e ad amare.

Dalla caramella “a vetro” alla Cupeta

Chiamo loro per farmi raccontare della Cupeta. Una storia dolce e antica che ha il profumo delle mandorle tostate. Il primo rimando è alla cosiddetta “caramella a ‘vitr”. «La caramella preparata dalle nostre nonne – spiega Rosa – lo zucchero sciolto nell’acqua e riscaldato sul fuoco, fino a diventare scuro, poi steso su un marmo ben oleato e “segnato” a coltello per creare un reticolo». Come un incrocio di strade ambrate su cui far pressione, che sonoramente lasciano venir fuori le caramelle.

caramello ancora liquido

Un escamotage per tenere buoni i bambini. Il ricordo di un amore semplice e lontano, quello dei nonni. Ma per arrivare alla Cupeta bisogna fare un passo ulteriore. «Allo zucchero e all’acqua viene aggiunto il miele. Il composto cotto viene sì fatto raffreddare, ma per essere poi ridotto in polvere e mischiato alle mandorle tostate e tritate grossolanamente – spiega Vittorio – il tutto viene passato in forno per poi essere tagliato a quadretti, o a forma di torroncino».

La derivazione araba e la differenza dal torrone

Non sia mai, però, confondere le due preparazioni. Per portare chiarezza è necessario fare un bel salto temporale. Nessun ricettario impolverato da aprire, s’intenda. A venirci in soccorso è il vocabolario. E per essere precisi e rassicurare i diffidenti basta scorrere con l’indice fino al terzo lemma di pagina 729 del Devoto-Oli, edizione 2007.

Scoprirete, allora, che il termine deriva dall’arabo, qubbīyat “mandorlato”. Un esercizio che, a suo tempo, fece lo stesso Camilleri, quando ne scrisse l’elogio su un libretto promozionale dell’Antico  Torronificio Nisseno. Mentre, il torrone, dicevamo, ha tutt’altra derivazione. Latina, per l’appunto, spagnola, per precisione. Il verbo è turrar “arrostire”; il quale a sua volta nasce dal latino torrere, “tostare”.

La Cupeta lungo la penisola

La prima notizia della diffusione della Cupeta in Italia risale al 1287: un atto notarile palermitano che rimanda a un venditore di “cubbaita”.

Da allora le ricette e le terminologie variano senza sosta da parte a parte di tutta la penisola. E se nel palermitano sarà immancabile l’odore del sesamo, caratterizzando le feste pasquali; poco più a nord, in Calabria, le scorze di cedro profumeranno il fine pasto dell’Immacolata. O, ancora, per tornare in terra lucana, a Pignola, in mancanza delle mandorle verranno usati noccioli di albicocca.

Un ricettario infinito, insomma, che non è possibile portare ad un’unica sintesi e che necessita, d’altronde, di una tecnica particolare per essere gustata al meglio. Senza essere aggredita, scriveva Sciascia, ma lasciandole il tempo di sciogliersi tra la lingua il palato. «Un invito alla meditazione ruminante», un tempo lento di altre donne e altri uomini.

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