ultimo romanzo Andrea Camilleri

L’ultimo romanzo di Camilleri a un anno dalla morte

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Riccardino. È già al vertice delle classifiche online, ancor prima di uscire, l’ultimo romanzo di Andrea Camilleri. Lo scrittore siciliano scomparso il 17 luglio scorso. Il libro chiude la saga del commissario più amato d’Italia, lasciandoci la triste sensazione di aver perso un caro amico, ma soprattutto, suona come l’ultimo saluto del più grande cantore della Sicilia. Un saluto a Vigata, all’acqua cristallina di Marinella. A Livia che ha dovuto, con il tempo, rassegnarsi ad amare un uomo che non l’avrebbe mai sposata. All’instancabile “sciupafemmine” Mimì Augello. Agli enormi e coloratissimi cannoli del dottor Pasquano, e persino alle sue imprecazioni: «Montalbano, non mi scassi i cabbasisi!». All’impacciato Catarella e alla sua particolare predisposizione nello storpiare i cognomi. Alle piccole e particolarissime caratteristiche di tutti questi personaggi che vivono in ognuno di noi. Alla terra di Sicilia che ci ha fatto conoscere e desiderare. 

È trascorso un anno dal suo trapasso. Un anno che nessuno avrebbe potuto immaginare per quello che poi si è rivelato. Un tempo fermo durante il quale Camilleri avrebbe potuto raccontarci. Disegnando con la sua scrittura, aperta e vivace, quello che noi tutti, chiusi dietro le finestre, non saremmo riusciti a cogliere, a vedere.  Probabilmente ci avrebbe fatto riflettere, sognare, vivere un’altra vita. Mostrandoci una via diversa. Opposta, alternativa a quella che siamo abituati a conoscere ed accettare. Come in Autodifesa di Caino, primo libro pubblicato postumo, dove il primo omicida della storia umana si presenta al pubblico mettendo subito in chiaro le cose: «Avanti, diciamocelo, agli assassini ci avete fatto, come si usa dire, il callo. […] Che se non ci fossi stato io, avreste amato il prossimo vostro come voi stessi? Ma va’…va’…». 

Degli omaggi e dei coccodrilli pubblicati dopo la sua morte, sicuramente, avrebbe riso. Avrebbe riso delle parole di Feltri che apostrofava il suo Montalbano come «un terrone che finalmente smetteva di rompere i coglioni». Avrebbe riso anche dei palcoscenici televisivi. Dell’ansia degli opinionisti di descriverlo, della ricerca delle parole “giuste”. Delle parole che bastano a loro stesse e che nessuno più sa trovare. 

E sarebbe stata una risata buona, fatta sottovoce. Lui che sottovoce non è mai riuscito a stare. Lui che, come scriveva Roberto Saviano, ha sempre rinunciato alla «comoda neutralità». Una risata che nasce dai suoi 93 anni di vita vissuta. Anni che ancora oggi sembrano non bastare a chi tanto lo ha amato. 

Avrebbe riso della morte di cui non aveva paura. «Mi fa pensare allo stesso rapporto che sussiste tra lu cielu niuru della notte e ‘u suli stricatu su la volta celeste d’estate: la morte me la immagino proprio così, una lotta, ‘na sciarra, tra l’una e l’altro». Così come non aveva paura del buio, da cui era attanagliato a causa della cecità sopravvenuta a novant’anni. I suoi sogni erano a colori. 

Avrebbe riso di santa ragione di tutto ciò, perché le cose di cui aver paura, per Camilleri, erano altre. Erano e sono i porti chiusi, l’odio per il diverso, il senso di indifferenza e il «mondo che ruota a rovescio». Ma come tutti i grandi vecchi avrebbe spiegato ai propri nipoti la sua sconfinata fiducia nell’umanità.  La sua immensa fiducia nei giovani che, sapeva, non l’avrebbero deluso. Perché si sbaglia, ma poi si torna alla luce. Come lui che a dieci anni, bambino allevato in pieno regime fascista, scrive una lettera al Duce, in cui chiede di arruolarsi volontario per la guerra in Abissinia. E questa sua stessa fiducia nell’uomo era la culla della sua umiltà. «Io non credo di essere il solo – diceva – penso ci siano migliaia di persone come me, persone comuni, che probabilmente non hanno la possibilità di esprimersi». E l’unica cosa, che di vero cuore possiamo augurarci oggi, è che questa sia la verità. 

Questo ha fatto Camilleri, il vecchio che si definiva tale e che per questo non poteva essere contemporaneo. Il vecchio che si era fermato a Yellow submarine dei Beatles. Camilleri ha scritto, ha parlato per chi non poteva o non sapeva scrivere e parlare. Per la sua Sicilia, che è diventata la nostra. Attraverso il dialetto siciliano che abbiamo imparato a capire e a ripetere a modo nostro. Ha parlato e scritto per le città di mare e per i loro porti aperti. Di un Sud la cui realtà sembra allontanarsi dal normale avvicendarsi dei fatti, come l’ombra a mezzogiorno.  Un Sud in cui i suoi personaggi, seppur oscuri, sono mossi da bisogni e passioni elementari, quasi animali. 

Il secondo volto della verità che ci sfugge indispettito, lontano da ogni costruzione logica. Eppure un Sud in cui continua ad essere sinuoso, il corso delle cose.

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