Franco Arminio: la voce dell’Italia interna e periferica
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Assomiglia a una stradina del mio paese la poesia di Franco Arminio. Una strada stretta che corre in salita verso la piazza per farsi slargo più in là, slargo e vuoto insieme. È forse poi questo stesso vuoto a generare poesia, versi semplici che sfuggono tutti i possibili realismi in nome di una realtà vera, concreta, ma mai unica. La realtà che passa dalle nuvole di fiato dei cani randagi dissoltesi nel gelo delle mattine invernali, fino al silenzio dei vecchi che abitano le panchine delle piazze di paese.
Arminio ci racconta questo mondo, il suo, il nostro: la storia dell’Italia interna e periferica, il 60% della superficie nazionale, più di 4000 comuni (oltre la metà del totale) distanti dai servizi essenziali, 13 milioni di abitanti che tendono sempre più verso i centri urbani; 13 milioni di storie accomunate, tra sud e nord, dall’amore verso la propria somiglianza, e in altri casi, dalla sfiducia, dal disfattismo e da un continuo slancio verso la fuga. Sembra essere, infatti, quest’ultima, l’unica soluzione verso questo piccolo e dislocato mondo di perduta e cupa rassegnazione. Si scappa da ciò che non c’è: dal lavoro che manca, dalle strade che mancano, dalle linee ferroviarie promesse e mai costruite, dagli ospedali chiusi come risposta a un bilancio che non quadra più, dalle scuole senza più bambini, da cinema e teatri mai realmente aperti, e ancora, dalle opportunità che non ci sono o in cui abbiamo smesso di credere, dalla paura di restare, dalla paura di essere gli unici a restare. Ma, soprattutto, da una politica assente, miope ed opportunista. Una politica che ha smesso di essere tale e che, invece, si prostituisce in campagna elettorale come una vecchia puttana che non piace più a nessuno, ma a cui ancora si rivolgono tutti, tra promesse di futuri impieghi e strette di mano fra vecchi volponi, demagogia e corruzione, interessi personali e rassicurazioni.
I giorni, in queste piccole isole dimenticate, puzzano di marginalizzazione e di miseria, culturale prima che economica. Una miseria che non lascia scampo e a cui, proprio come alla puzza, prima o poi, ci si abitua, volenti o nolenti.
La tendenza allo spopolamento sembra essere l’unica costante che genera movimento, ora come sessant’anni fa. Dalla periferia al centro, un grande buco nero che tutto ingloba e tutto digerisce. Un viaggio verso l’indistinto e l’ordinario, tra gli scarti di noi stessi. Sulla bilancia le colpe di chi resta e di chi va, in mezzo c’è la vita, le scelte, le ambizioni, vere o solo sognate; dall’altra parte il paese, reo di non essere diventato città. Da qui il nodo principale: «Arieggiare i paesi»
«Non ha senso dire che dei paesi si deve occupare solo chi li vive da dentro. Non ha senso neppure di guidarli da fuori, senza coinvolgere le persone del posto. In questo caso non avremmo un paese ma un outlet della ruralità. Per combattere lo spopolamento servono certamente i servizi e le politiche di sviluppo locale, ma serve anche la consapevolezza che un paese per sua natura fa resistenza al nuovo. Il paese è conservatore e tende a diffidare da chi ci sta dentro con la passione di cambiarlo. I paesani non sono più i “cafoni” di una volta, quelli che potevano essere inchiodati alle tradizioni, ostili al nuovo, ma almeno erano solidali con il luogo, avevano dei saperi, una dignità, una cultura antica. I paesani di oggi spesso sono inzuppati di sfiducia, sono rami senza radici, fringuelli dell’insolenza. Bisogna arieggiare i paesi portando gente nuova, il paese deve essere un intreccio di indigeni e forestieri. Bisogna agitare le acque, ci vuole una comunità ruscello più che una comunità pozzanghera».
Franco Arminio, La cura dello sguardo, Bompiani, 2020, p. 25
Agitare le acque, appunto. Allontanare il pericolo di un “paese museo” o, come più propriamente scrive il poeta, di «un outlet della ruralità». L’antico in cui rifugiarsi come scampo momentaneo dallo smog e dai cartelli pubblicitari; il vecchio a cui far ritorno come in una sorta di esperienza esotica, l’ascesa verso un mondo di perduta spiritualità, per poi rientrare, a vacanza terminata, nella propria, tanto indiscussa quanto proclamata, “civiltà”. Arminio si colloca ben lontano dagli stereotipi che vorrebbero descrivere e consegnarci l’Italia interna come una cloaca di tradizioni e virtuosa arretratezza. Comunità ruscello anziché comunità pozzanghera, questa è, invece, la sua formula. Sperimentare, finalmente, il coinvolgimento dei locali, premiare il saper fare, la bellezza in quanto tale, oltrepassare le categorizzazioni di ogni sorta, sorpassare il rischio di una “città contenitore” da vivere per comparti separati sulla base del fattore anagrafico.
Arminio, in quanto paesologo, si propone come unico interprete di questa scienza «difettosa», come egli stesso la definisce. Scienza che fugge ogni rigido schema disciplinare e si figura, invece, come strumento per far luce tra i borghi dimenticati della penisola, per riconsegnarli al tempo e alla dignità del racconto. Egli va nei posti, guarda, ascolta e scrive. Franco, verrebbe da chiamarlo per nome e dargli del tu per quanto riesca ad essere vicino ad ogni luogo, non ha l’aria dell’intellettuale consumato, e mantiene lontano da sé l’ombra di quella ostentata cerebralità mai passata del tutto fuori moda. Nelle piazze raccoglie intorno a sé quello che non è il suo pubblico, ma chi, semplicemente, si trova lì a sostare. Parla, tra prosa e poesia, del tempo, delle paure, delle ferite e dei morti, e poi chiede di cantare insieme “Felicità” di Albano e Romina Power. L’Italia: sacro, profano e festival di Sanremo. Musica, rumore, poi di nuovo poesia, fatta leggere a un vecchio nel dialetto del posto.
In questo spirito errante, classe ’60, che nasce e vive tutt’ora a Bisaccia, quattromila anime in provincia di Avellino; si fondono passione e compassione, slancio politico e civile. Arminio è la voce di un’umanità ritrovata tra le tegole rotte ammassate per strada, tegole che non troveranno nuova collocazione se non quel muro scrostato invaso dalle erbacce. È la voce di una poesia che mancava, una poesia d’amore e di morte, di vita e altri ostacoli che si trovano per la via. Delle parole che avremmo voluto dire e che non abbiamo detto; di quelle che c’avrebbe fatto piacere udire e che eppure non abbiamo udito. Arminio lancia un ponte verso i soli, gli inascoltati, siano essi paesi, persone o oggetti. Nell’Italia al tempo del virus lascia il suo contatto telefonico sulle proprie pagine social rendendosi disponibile al dialogo, all’ascolto. Promuove il baratto libri/viveri e idea il festival “La Luna e i Calanchi” ad Aliano, con l’ambizione di raccogliere intorno a quel luogo «il meglio delle tensioni civili e artistiche che si stanno sprigionando nel mediterraneo interiore».
Arminio, raccontando l’Italia vista da dentro, si rivolge al lettore abbandonando ogni pretesa da poeta vate e parlando, semplicemente, come un uomo che tra tanti uomini si ritrova da solo ed ha paura:
«Non sappiamo bene cosa sia la vita, forse è arrivare in un punto e avere una bella voglia di compiere un altro pezzo di cammino. Non si possono fare grandi imbrogli , almeno con se stessi. Possiamo metterci tanti vestiti, ma la nudità possibile è una sola, una per ognuno. In queste righe ci sono istruzioni semplici, non portano a nessuna salvezza ma testimoniano il potere dello sguardo. Dobbiamo spalancare gli occhi, sentire che ognuno di noi è ferita e guaritore. Io mi curo di me guardando fuori».
Franco Arminio, La cura dello sguardo, Bompiani, 2020, pp. 9-10