Piccole cose

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«Le piccole cose hanno la loro importanza – recitava un celebre scritto di un altrettanto celebre  scrittore – è sempre per le piccole cose che ci si perde», terminava. Oggi, sul fluire di un ennesimo anno funesto, privo oltretutto della scusante di potersi definire bisesto, checché ne dicano gli astrologi, sarebbe interessante tornare a considerare il fatto che sì, le piccole cose hanno la loro importanza, ed è magari proprie per le piccole cose che ci si salva.

Quella di oggi è una piccola storia che nasce dalle coincidenze e dalle volontà di tante e diverse persone trovatesi assieme; ché dalle coincidenze soltanto non è nato mai niente.

Siamo nel ’96 e Rosa è appena venuta a conoscenza del fatto che sua figlia Francesca è malata di leucemia, i suoi due fratelli non sono compatibili, e i due genitori decidono di mettere al mondo il loro quarto figlio, nella speranza di una potenziale compatibilità che non arriva. Rosa partorisce a Matera e decide comunque di donare il proprio cordone ombelicale. Francesca, purtroppo, non ce la fa.

Dall’altra parte della storia c’è un medico che nel ’93 istituisce una delle prime banche, in Italia e in Europa, per la raccolta e la manipolazione delle cellule staminali emopoietiche da sangue cordonale. È quello stesso medico a prelevare, subito dopo il parto di Rosa, il sangue cordonale per provvedere alla sua conservazione.

Rosa Viola, che costituirà in seguito Domos Basilicata, l’associazione di donatori di midollo osseo intitolata alla figlia Francesca, e il dottor Carlo Gaudiano, sono i primi protagonisti di questa nostra storia. Prende così avvio un’intensa campagna di sensibilizzazione delle donne lucane nei confronti della donazione del cordone ombelicale, con risultati incoraggianti: cinquecento cordoni raccolti.

Nel 2004 la banca di sangue cordonale cambia piano, passando dal centro di microcitemia, dove era gestita sotto la diretta responsabilità di Gaudiano, al centro trasfusionale, pur rimanendo nello stesso ospedale. Se ne perdono le tracce. Sarà un articolo del Corriere della Sera dal titolo Mamme donano il cordone ombelicale e a Matera ne buttano via cinquecento a far esplodere il caso.

Parte l’inchiesta sulla distruzione delle staminali che si protrarrà per anni. Gaudiano viene accusato pubblicamente di aver operato in autonomia e al di fuori delle regole. La sua vita cambia: «mi tolgono tutto, non solo la banca delle staminali – dichiarerà Gaudiano in un’intervista – non mi fanno più lavorare, pagandomi per non far nulla, per questa stessa ragione mi sono autodenunciato alla Corte dei conti».

Ci vorranno dieci anni di un percorso giudiziario articolato e complesso per vedere l’ASM di Matera condannata  nella causa per controversia di lavoro con Gaudiano che, come scriverà il giudice, fu sottoposto a «condotte vessatorie e mortificanti […] sottrazione di strumenti di lavoro, isolamento dai colleghi fino al licenziamento comminato in corso di causa e dichiarato illegittimo».

Malasanità, malapolitica o malaffare? Dietro la vicenda di un uomo, la porta chiusa in faccia ad un’intera comunità che di quel servizio avrebbe potuto usufruire. Ma facciamo un salto indietro. Siamo alle porte del duemila, una giovane famiglia albanese si trasferisce a Matera, il loro bambino ha l’anemia mediterranea, una malattia ereditaria del sangue che porta alla distruzione dei globuli rossi.

È a questo punto che il cerchio si chiude. Gaudiano, non messo in condizioni di operare nella propria regione, decide di mettere la propria professionalità a servizio di quelle popolazioni flagellate dalla malattia, fondando l’Onlus Un cuore per l’Albania. Ne seguirà un lavoro che vedrà impegnati, nell’arco di vent’anni, diversi volontari nei distretti di Valona, Fier e Lusnje, al fine di prevenire e curare l’anemia mediterranea e le altre emoglobinopatie.

«Abbiamo trasferito l’esperienza che avevamo in questo campo fino a Valona – ha spiegato Gaudiano, oggi in pensione, al Presidente della Repubblica albanese Ilir Meta, in visita a Matera lo scorso 22 aprile (video dell’incontro) – facendo ricorso alla strategia precedentemente applicata sul nostro territorio, dall’informazione nelle scuole fino allo screening di oltre cinquantamila maturandi albanesi, il tutto tramite accordi triennali con lo stesso ministro della sanità albanese, il consolato italiano a Valona e l’ambasciata italiana di Tirana».

I risultati del progetto, portato avanti esclusivamente grazie all’autofinanziamento sono stati sorprendenti. Dall’istituzione a Valona di un centro per la lotta all’anemia mediterranea, ai quindici piccoli pazienti trapiantati in collaborazione con il centro per il trapianto di midollo osseo di Pescara. A ciò si aggiunge la formazione del personale sanitario albanese nel campo delle talassemie, la fornitura dei reagenti e del materiale sanitario.

Una strada verso la cultura della prevenzione, ma che pone al proprio centro una scelta solidale fatta di azioni concrete mirate all’estensione di un diritto fondamentale e inviolabile, quello alla cura. Una strada comune con accanto l’AVIS Pisticci, impegnata nel formare una prima rete di donatori di sangue, e DOMOS Basilicata, che ha avviato un’importante campagna di sensibilizzazione per la donazione del midollo osseo. A ciò si lega l’instancabile impegno dell’associazione pisticcese Volontari Maria di Nazareth, nella raccolta e la distribuzione di aiuti umanitari.

Aver rivoluzionato quella che era vista come la storia e l’esito naturale dell’anemia mediterranea in Albania, questo il merito che va al dottor Gaudiano e a tutti coloro che hanno creduto nella forza dei piccoli passi e delle piccole cose. Tra questi occorre ricordare il compianto Emanuele Nicoletti, socio fondatore dell’associazione, che per anni ha collaborato al fianco di Gaudiano, trasportando con un carrellino attaccato alla sua macchina l’azoto donato dalla Valbasento, dove lavorava, fino all’ospedale di Matera, quando i cordoni ombelicali erano ancora al loro posto, prima che la storia inciampasse e cambiasse strada.

Oltre ai numeri, il riflesso sulla vita delle persone, il risultato di aver debellato una «malattia sociale», il segno di come ciò che è stato non debba per forza continuare ad essere, ma soprattutto la sintesi di storie comuni e diverse, di piccole cose che tornano, sempre e comunque, ad occupare il giusto spazio.

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