Nel Parco del Pollino, il Mulino Arleo

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Di cosa parliamo quando parliamo di cibo? E, soprattutto, come può il cibo inserirsi all’interno di un processo di contrasto alle dinamiche di globalizzazione, preservando, tra l’altro, l’identità economica, culturale e sociale di un territorio? Ed, infine, come esso riesce a sottrarsi a tali, talvolta ridondanti, elucubrazioni ed arrivare, finalmente, nel nostro quotidiano e, dunque, sulle nostre tavole?

Probabilmente la risposta a tali domande è insita nelle scelte di quegli uomini che questo cibo lo producono. Scelte che non fanno riferimento al puro e programmatico indirizzo della propria attività produttiva, ma rientrano in una categorizzazione più ampia; in quelle scelte di vita, o storie se preferite, nascoste tra l’ordinaria unicità che le contraddistingue. Una di queste storie ha per sfondo lo splendido scenario del Parco Nazionale del Pollino, l’area protetta più estesa d’Italia: siamo a Castronuovo di Sant’Andrea, poco meno di mille anime abbarbicate sullo schienale del Fosso Manca, a 650 m s.l.m., nel cuore di quello che viene chiamato il triangolo verde della valle del Sinni.

Poesia e spopolamento. In sintesi. Uno straordinario contesto ambientale fonte di ammaliamento e fascinazione, che cattura chiunque lo visiti ma non riesce a trattenere a sé i propri figli. Solo negli ultimi vent’anni la popolazione residente di questo piccolo centro nella parte sud-orientale della provincia potentina, è diminuita di oltre un terzo. D’altronde, le previsioni demografiche Istat inerenti l’intera regione Basilicata non sono più rosee rispetto alla già tanto amara realtà: nel giro di altri vent’anni, nel 2041 dunque, si potranno contare oltre 58 mila unità in meno; come se la quasi totalità degli attuali cittadini di Matera decidesse, d’un tratto, di trasferirsi altrove, per non tornare più.

Dall’altra parte, oltre le previsioni, c’è il coraggio di chi resta. Questa è una storia che racconta il coraggio di restare, credendo e investendo nella propria terra. È una storia che in sé non ha nulla di straordinario, ma che può essere a tutti gli effetti la sintesi ultima di quella rivoluzione e quel cambiamento che vorremmo e dovremmo essere.

È la storia di un uomo, Antonio Arleo, che trent’anni fa intraprende uno dei mestieri più antichi del mondo, il mugnaio. Il suo è un piccolo mulino e Arleo sa benissimo di non poter assolutamente competere con i numeri della grande industria. La strada da seguire per poter emergere è una sola: dare al mercato un prodotto diverso, che distingua la sua attività dalle altre. Inizia così la ricerca, coadiuvata da alcuni agricoltori custodi, di antiche varietà di grano locali. Tra questi la Carosella, «una varietà di grano tenero di origine antichissima, usato già in epoca romana, la cui coltivazione – spiega Antonio – poteva essere considerata massiccia fino a qualche decennio fa, per poi quasi scomparire nel nulla, soppiantata da varietà più produttive e, dunque, maggiormente redditizie». Una lotta alla perdita della biodiversità, quella di Arleo, condotta attraverso il recupero e la promozione di una varietà locale, prodotta su piccola scala, certamente meno produttiva in senso assoluto, ma con importanti capacità, maturate in millenni di evoluzione, di adattarsi a un determinato contesto biologico e pedoclimatico. Dietro ad ogni varietà una storia, legata al territorio e alla tradizione, una memoria che merita anch’essa di essere conservata: «il suo nome dialettale è Carusedda, da “grano tosello”, ovvero senza testa, tosato o caruso. La cariosside, infatti, presenta una particolare solcatura che la distingue dagli altri grani. Ma la principale caratteristica è il bassissimo contenuto di glutine, circa l’8% rispetto al 15% dei grani commerciali».

Nel 2002 l’azienda entra a far parte del processo di filiera indetto dall’Ente Parco del Pollino il quale vigila sulla qualità del prodotto,e su tutto l’iter che si dispiega per trasformare il grano in farina. Circa dieci gli agricoltori che conferiscono il grano, coltivato esclusivamente all’interno del Parco, al Mulino Arleo. Tra le altre varietà il Senatore Cappelli, per quanto riguarda il grano duro, per una semola particolarmente adatta alla pastificazione e alla panificazione; e la Saragolla, che si distingue dalle altra per l’elevata digeribilità.

Ma il prodotto di punta dell’azienda è senz’altro il Mischiglio, la combinazione di una farina ricavata dall’utilizzo di alcuni legumi: fave, ceci bianchi e orzo, a cui si aggiunge un terzo di grano duro e un terzo di grano tenero. Un piatto risalente a tempi antecedenti l’Unità d’Italia, caratteristico delle zone di Chiaromonte, Fardella, Calvera e Teana.

La produzione annua totale si aggira intorno ai tremila quintali annui. Briciole, si potrebbe pensare, anche solo rispetto ai vicini pugliesi. Briciole figlie di una scelta precisa, quella di privilegiare la qualità alla quantità, riconoscendo al lavoro degli agricoltori il giusto valore. Una scelta che ha permesso ad Antonio Arleo non solo di vivere dignitosamente del proprio lavoro, ma di far sì che i propri figli potessero lavorare nell’azienda paterna. Briciole, se ancora così le si vuole chiamare, che pure rappresentano il pane di molti, e che in una terra in costante spopolamento permettono di credere che una via diversa, da dentro, sia ancora possibile.

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