Storie dal metapontino: oltre il ghetto

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La strada provinciale ex SS 175 della Valle del Bradano corre per 44 km in Basilicata, lambendo per un brevissimo tratto anche il territorio pugliese. Con innesto sulla statale Appia, attraversa le campagne materane disegnando un tracciato compreso tra il torrente Gravina, a sinistra, e il Bradano, sempre più vicino, a destra, che l’accompagna parallela fino alla Piana di Metaponto. È quest’ultimo tronco a essere utilizzato dagli automobilisti per scendere, durante il periodo estivo, fino al mare; ma l’infrastruttura risponde anche alla domanda di spostamento di prodotti agricoli e merci che dalla fascia jonica giungono all’interno apulo-lucano.

Metaponto: spiagge finissime fagocitate dall’erosione costiera, la cementificazione sfrenata e ciò che ne consegue; un turismo che nei suoi anni di boom ha riempito le tasche, nella maggior parte dei casi, ai già abbienti proprietari di appartamenti e ai vari club, camping e villaggi turistici a colpi di assunzioni stagionali di ragazzini alle prime esperienze, sottopagati e contenti, nel migliore dei casi, e di lavoro nero, per il restante di essi. Una strada difficile da percorrere, per una località quasi irraggiungibile: la Pro Loco che chiede di ripristinare i bus estivi provenienti da Matera per non dirottare i turisti del capoluogo di provincia verso le spiagge pugliesi, e sollecita la riapertura della biglietteria ferroviaria, recentemente soppressa, per un bacino di utenza che si attesterebbe oggi intorno ai 150 mila potenziali fruitori. E poi la terra, fertile e produttiva, quella che negli anni ’90 veniva considerata la California del Sud. Poi la crisi: i piccoli produttori che crollano sotto i colpi dei grandi colossi della commercializzazione; alcune aziende, poche, ce la fanno, crescono, si associano, resistono; altre no. L’emigrazione: il borgo a due passi dal mare, la regione storica in cui si sviluppò fiorente la civiltà della Magna Grecia, la città in cui il famoso matematico e filosofo greco fondò una delle sedi della scuola pitagorica, si spopola. Quasi tremila anni di storia per un territorio dalle infinite potenzialità, un territorio che per volontà, o peggio per inadeguatezza politica, si inaridisce lentamente.

«Metaponto, mai così tanto ignorata come altre piccole comunità, mai così tanto presente nelle menti di chi, come in questo caso, l’ha eletta ideale ostello per il soggiorno di migranti o ospitale dormitorio a cielo aperto per gente presumibilmente senza permessi, senza legge, senza fissa dimora». Così recitava una lettera, ormai risalente ai primi mesi del 2018, firmata da 350 cittadini di Metaponto, e indirizzata al prefetto e al questore di Matera, all’allora Presidente della Giunta Regionale Marcello Pittella, e al da poco capitolato sindaco Tataranno. Riferimenti alle “quote di migranti previsti” si intercalavano alla “denuncia di degrado” e alla richiesta di “standard minimi di sicurezza”. Dinamiche ormai note: vuoti politici, mancanza di pianificazione, strumentalizzazioni e conseguente guerra tra disperati, per la rivendicazione di una terra che non appartiene mai veramente a nessuno se non può essere percorsa liberamente da tutti.

Gli “ostelli”, così definiti, erano in realtà baracche di fortuna, scatole di cartone sotto i ponti ferroviari o tra i canali della bonifica fondiaria, casolari abbandonati e fatiscenti. È in questo abisso dell’incuria e dell’oblio sociale che queste vite provenienti da mondi lontani vanno ad insediarsi. Duemila in tutto, fotografate dal rapporto condotto in sette baraccopoli lucane da Medici Senza Frontiere tra il luglio e il novembre del 2019. «Vite a giornata»: duemila storie, o destini, se preferite, che avrebbero potuto parlare di ciascuno di noi, di un’umanità che ancora non può scegliere il luogo e il colore della propria nascita. Duemila paia di braccia, duemila schiene che si piegano a raccogliere i pomodori che noi, poi, compriamo al mercato del sabato mattina. Schiene che si flettono in quei campi che un tempo erano zappati dai nostri nonni, quella terra bianca e arsa che è la nostra, quella terra di Lucania dove ogni frutto sembra un fiore, un miracolo a cui è meglio non credere. Ed esattamente come allora, come ottant’anni fa, tra questi uomini stanchi e spezzati, ci sono i padroni, che oggi chiamiamo caporali e che, in linea ai loro predecessori, analizzano, indicano e scelgono, proprio come al mercato degli schiavi, gli uomini da portare a lavorare. E gli schiavi, neri e bianchi, non fa tanta differenza in fin dei conti, sono tutti contro tutti, poiché l’uno guadagna il pane che avrebbe potuto guadagnare l’altro se solo quest’ultimo fosse stato chiamato al suo posto.

Ma le storie vecchie, trite e ritrite, interessano a pochi, ed è su questa scia, che ai problemi complessi si inizia a rispondere con gli slogan. Quello più in voga tra tutte le amministrazioni comunali succedutesi nel corso degli anni a Bernalda è sintetizzabile alla pratica dello sgombero. Dall’ex stabilimento di trasformazione agricola Cometa al Vivaio ex Alsia, fino all’ex falegnameria Pizzolla. Un percorso costellato da una miriade di “ex qualcosa”, qualcosa che non è più, che ha cessato di essere ciò che era prima e che quindi viene lasciato agli invisibili, a coloro che non emergono fino a quando con loro non emerge l’emergenza, sia essa igienico-sanitaria o di pubblica sicurezza.

La tappa successiva sono i capannoni abbandonati della, anch’essa ex, Felandina, il complesso industriale che avrebbe dovuto dare lavoro a circa seicento disoccupati, ma abortito sul nascere con una maxi truffa milionaria ai danni dello Stato e lasciato poi in totale abbandono. Assolutamente priva delle reti idriche, fognarie ed elettriche; nonché più lontana dal centro del paese per i rifornimenti alimentari, ma soprattutto un punto ad intenso traffico automobilistico, trovandosi in prossimità dell’incrocio con la SS 106 jonica. Tanto che nel 2017 due migranti in bicicletta vengono travolti da un’automobile in transito sul tratto più a valle, la conseguenza è la morte sul colpo di uno di loro. Ma bisogna attendere il caldo agosto del 2019 per parlare di quella che molti definirono come una tragedia annunciata: una fuga di gas, un rogo e una giovane donna di ventott’anni che ci muore dentro. Così anche la Felandina viene sgomberata. Centotrenta persone vengono trasferite in varie strutture, gli altri, un numero imprecisato tra 400 e 600, ritornano ad essere fantasmi. Fantasmi che, con un borsone pieno di stracci, vagano sulla Basentana. Fantasmi alla ricerca dell’ennesimo ghetto fantasma, almeno fino al prossimo rogo rivelatore.

Ma il ghetto non è un fenomeno circoscritto alla Felandina, in quanto esso va oltre lo spazio che occupa e segna la distinzione tra noi e loro, tra ciò che è dentro e ciò che è fuori. Il ghetto è nella nostra testa e definisce ogni forma materiale o mentale di segregazione e d’isolamento. Basta spostare, o meglio, disperdere i migranti per poter dire di aver risolto il problema. Basta attendere la loro graduale marginalizzazione da qualche altra parte, la progressiva separazione dalla società circostante ed, infine, la cristallizzazione di una società autonoma e diversa. Una società che non riconosciamo e non vogliamo riconoscere, per poi attingere da questo serbatoio di uomini soli, facendo leva sulla situazione di perpetua ansietà in cui versano. Ecco perché il “sistema ghetto” non viene realmente affrontato: esso risponde alle esigenze di una politica che non è più in grado di porsi le domande giuste e alla necessità di un popolo di identificare un nemico comune, da combattere e annientare. Il ghetto rappresenta nient’altro che il divorzio tra ciò che vogliamo vedere e ciò che preferiamo tenere lontano, il consolidarsi di un mondo diverso che pure ci appartiene e a cui, per converso, apparteniamo. Ecco perché, in ultima sintesi, procedere allo sgombero senza individuare una valida soluzione alternativa equivale al, tanto voluto quanto consapevole, mantenimento di questi lavoratori ai margini delle nostre comunità, consegnandoli inevitabilmente nelle mani dei caporali.

L’ultima ordinanza di sgombero è stata predisposta qualche mese fa e dovrebbe essere eseguita nei prossimi giorni dalla Commissaria prefettizia che attualmente regge il municipio jonico. Per scongiurarne l’esecuzione, l’associazione Migranti tutti, sotto il coordinamento di Pino Passarelli, si muove affinché i lavoratori con domicilio abusivo possano trovare un alloggio dignitoso, attraverso vari sodalizi che coinvolgano sia la Regione che le associazioni legate alla Caritas.

«Incanalare il flusso migratorio in un percorso virtuoso». Passa da qui l’integrazione che l’associazione ha intenzione di perseguire. E sempre da qui nasce il corso d’italiano per i giovani lavoratori stranieri, ripreso in presenza dalla metà di aprile, dopo l’inizio in DAD causa pandemia. Attivo tre giorni la settimana anche uno sportello di assistenza legale e burocratica, mentre a breve partirà anche il servizio di supporto sanitario, “ambulatorio sociale” lo definisce Passarelli, pensato per i migranti privi di copertura da parte del servizio sanitario nazionale. Le idee sono molte e in continua evoluzione: reperire altri locali per fare corsi di formazione al lavoro; istituire corsi di religione per superare le differenze instillate dai troppi e ancora radicati stereotipi; recuperare case sfitte da destinare ai lavoratori stagionali; sino alla realizzazione di laboratori musicali ed attività sportive a livello amatoriale: «l’auspicio è che queste attività possano smussare gli angoli». Uscire dal ghetto, coinvolgendo la popolazione del posto, questa l’unica via percorribile.

«Abbiamo perso quindici anni – commenta Passarelli – le varie amministrazioni susseguitesi non hanno fatto altro che ignorare il problema, passando, talvolta, di sgombero in sgombero. Tutto è sempre stato portato a livelli emergenziali, perché come ben si sa durante l’emergenza non c’è controllo sulle spese. Non si è mai pensato a gestire razionalmente il flusso, preferendo cavalcare, invece, l’onda emotiva del momento». Accoglienza organizzata, questo l’obbiettivo di Migranti tutti: il rovesciamento di una prospettiva che possa coniugare l’accoglienza con il rilancio stesso del paese, contrastando lo spopolamento e risollevando l’economia del territorio.

«La presenza dei lavoratori stranieri nell’agricoltura del metapontino è un dato strutturale e in crescita costante, i migranti seguono la ciclicità delle stagioni – spiega ancora Pino – dei raccolti e quindi del lavoro. A breve ci sarà la raccolta delle angurie, e le angurie sono pesanti. Chi pensa che non marcirebbero nel campo se non ci fossero loro a raccoglierle? Una filiera giusta per tutti gli attori è l’unica strada possibile da percorrere». Nessuna legge sul caporalato potrà infatti essere davvero decisiva nel fermare lo sfruttamento se a questa non verrà coniugata una vera e propria riforma della filiera agricola. «Vogliamo rendere questi lavoratori consapevoli del peso che essi ricoprono, affinché possano associarsi ed organizzarsi, affinché il valore del loro lavoro venga finalmente e realmente riconosciuto».

La lettera del 2018, tra le tante cose, spiegava come Metaponto fosse «turismo, mare, archeologia e cultura», nulla di più vero, e si chiedevano per questo «imminenti e celeri interventi per arginare il degrado nel quale pare progressivamente precipitare». Il tempo ha dimostrato che gli imminenti e i celeri interventi hanno contribuito solamente a cambiare, via via, collocazione al “problema”, senza mai giungere ad un effettiva risoluzione. Per invertire la tendenza si rende necessario, invece,  un piano programmatico che coinvolga le istituzioni. Ciò vuol dire: abbattere le difficoltà di accesso al sistema sanitario anche attraverso l’attivazione di servizi di mediazione linguistico-culturale negli ospedali e definire strategie di lungo periodo per garantire soluzioni abitative dignitose ai braccianti, qui dove tutto sembra, invece, essersi cristallizzato in un infinito altrove, alla disperata ricerca delle altrui colpe. Meccanismo senza uscita di un gioco politico di spregiudicata affabulazione. Un gioco basato sulla tecnica della distorsione della realtà. Un sistema disposto a sottrarre peso e spazio alle effettive dinamiche sociali pur di cavalcare e rincorrere il consenso di una base elettorale ormai stanca di porsi domande e per la quale nessuno si impegna a fornire reali e critiche risposte.

 

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