Slow Wine Fair

Slow Wine Fair. Il vino nel racconto del territorio.

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Vino buono, pulito e giusto. Dalla produzione al consumo. L’obiettivo è segnare una nuova strada per una viticoltura che possa progressivamente allontanarsi dall’uso della chimica per tornare ad essere presidio di biodiversità. Questo e molti altri i temi che verranno affrontati nell’ambito della prima manifestazione internazionale, ideata da Slow Food e organizzata da BolognaFiere, che si terrà nell’antico e vivace capoluogo dell’Emilia Romagna, dal 27 al 29 marzo.

Slow Wine Fair. Un ampia rete, inclusiva e collaborativa, come occasione di incontro e confronto tra tutti gli attori del settore: oltre cinquecento cantine, dall’Italia e dall’estero, per cinquemila etichette tutte da scoprire, assieme a un fitto calendario di convegni e masterclass. «Sfruttare tali ponti di congiunzione al fine di progettare, in un futuro sempre più prossimo, una crescente adesione ai precetti di buono, pulito e giusto»: si iscrive in tal senso la partecipazione della condotta Slow Food Magna Grecia Metapontum all’iniziativa descritta.

Il vino come strumento di riscatto culturale. Veicolo di storia. Questa la reale chiave di volta per offrire una lettura completa rispetto a tutto ciò che la promozione di tale prodotto può oggi portare con sé. Sebbene esso costituisca uno dei migliori biglietti da visita giocabili nell’ambito del made in Italy, ne è un esempio il progressivo aumento delle esportazioni in ogni parte del mondo; d’altro canto, l’incremento massiccio della produzione, assieme ovviamente alla non più marginale variabile della globalizzazione, ha spalancato una nuova finestra su meno apprezzabili e apprezzate conseguenze, quali la massificazione stessa del prodotto, sinonimo, purtroppo, di una crescente omologazione del gusto. È bene ricordare, infatti, come la viticoltura sia tra i principali consumatori di prodotti antifungini e insetticidi, e in  quanto tale, responsabile di inquinamento e depauperamento della biodiversità dei vari terroir, oggi consegnati all’imperante avanzare della monocoltura. Il risultato? Caratteristiche che rinunciano alle proprie specificità e vanno via via omogeneizzandosi per poter entrare a far parte dello stesso grande calderone, abdicando così alla possibilità di farsi promotore di storie, idee e informazioni che, nella loro irrimediabile diversità, andavano a costituire il vero patrimonio da salvaguardare.

Dalla globalizzazione al localismo. All’unificazione dei mercati a livello mondiale si contrappone, almeno idealmente, un altro processo che potremmo definire come localismo, ovvero la ricerca di varietà locali. In sintesi, le tipicità in opposizione alla standardizzazione del prodotto. Sarebbe, a questo punto, pura utopia, se non triste inettituidine, credere che il localismo possa un giorno spuntarla sulla progressiva indistinzione che tutti sazia e tutti disseta, in cui nulla è riconducibile a null’altro. Un prodotto vuoto e nudo, la comodità di un contenitore da riempire come meglio si crede. Unica finalità da rincorrere, la giusta appetibilità alla vendita.

Il binomio prodotto – territorio. Se ciò è senz’altro vero è comunque innegabile che il binomio prodotto-territorio, l’unico veramente in grado di portare con sé anche la storia, l’identità e la cultura di una determinata zona geografica, ha fatto emergere nel corso del tempo prodotti di eccellenza e con essi la terra da cui provengono. Dinamica questa ancora più evidente proprio nel settore enologico, dove la specificità di una produzione è influenzata, in tutto e per tutto, dal terroir, un insieme di elementi che interagendo tra loro vanno a caratterizzare un’area ben delimitata, rendendola perciò “unica”. Motivo per cui, il successo di un vino, legato a una zona specifica, porta proprio quel territorio ad emergere dall’ombra e a riscoprirsi nuovamente apprezzabile, anche all’interno di un settore produttivo per troppo tempo ostaggio dei grandi marchi della GDO.

Enotria: scrigno della memoria. Tanti e vari potrebbero essere gli esempi di casa nostra, a testimonianza di come “parlare di cibo” non si limiti mai, veramente, alla mera discussione su una pietanza piuttosto che un’altra, ma abbracci la storia culturale, politica, e il percorso differenziale tra aree dell’intera penisola. Ciò vale, allo stesso modo, per il vino. Quando si parla di vini lucani si parla di Enotria, un’area di antica concezione geografica, una volta creduta circoscritta al solo territorio calabro. Oggi si può affermare che tale zona fosse molto più ampia, estendendosi dal Pollino calabrese fino a nord, lungo la costa tirrenica campana, per poi abbracciare la parte interna ad est, dall’Appennino al Vulture, e scendere di nuovo giù verso lo Jonio lucano. Il nome di questo meraviglioso territorio, famoso soprattutto per la sua enorme ricchezza di fiumi e sorgenti,  fattore quest’ultimo rivelatosi indispensabile per la nascita e lo sviluppo dei primi agglomerati umani, deriva dal greco ôinos, che vuol dire vino, proprio grazie ai floridi e numerosi vigneti situati in loco. Questo il motivo che ancora oggi porta a considerare il vino di queste terre un vero e proprio scrigno della memoria, la memoria di una storia millenaria di cui tutti noi siamo eredi. Espressione delle nostre radici di agricoltori e della nostra appartenenza alla terra, la viticoltura è diventata man mano una attività distintiva volta alla rivendicazione della propria identità, un marchio socio-culturale a testimonianza della storia dei nostri avi.

 

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