Dragone vini, espressione di tipicità

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Da sempre il vino costituisce uno dei migliori biglietti da visita giocabili nell’ambito del made in Italy, ne è un esempio il progressivo aumento delle esportazioni per ogni parte del mondo, esportazioni che confermano come questo prodotto sia un vero e proprio marchio identitario nel panorama socio-culturale della nostra penisola.

D’altro canto, però, l’incremento massiccio della produzione, assieme ovviamente alla non più marginale variabile della globalizzazione, ha spalancato una nuova finestra su meno apprezzabili e apprezzate conseguenze, quali la massificazione stessa del prodotto, sinonimo, purtroppo, di una crescente omologazione del gusto. Caratteristiche che rinunciano alle proprie specificità e vanno via via omogeneizzandosi per poter entrare a far parte dello stesso grande calderone, abdicando così alla possibilità di farsi veicolo di storie, idee e informazioni che nella loro irrimediabile diversità andavano a costituire il vero patrimonio da salvaguardare.

All’unificazione dei mercati a livello mondiale si contrappone, almeno idealmente, un altro processo che potremmo definire come localismo, ovvero la ricerca di varietà locali. In sintesi, le tipicità in opposizione alla standardizzazione del prodotto. Sarebbe, a questo punto, pura utopia, se non triste inettituidine, credere che il localismo possa un giorno spuntarla sulla progressiva indistinzione che tutti sazia e tutti disseta, in cui niente è riconducibile a nient’altro: un prodotto vuoto e nudo, il giusto contenitore che ognuno può riempire come meglio crede, in cui l’unica finalità da rincorrere è la giusta appetibilità alla vendita. Se ciò è senz’altro vero è comunque innegabile che il binomio prodotto-territorio, l’unico veramente in grado di portare con sé anche la storia, l’identità e la cultura di una determinata zona geografica, ha fatto emergere nel corso del tempo prodotti di eccellenza e con essi la terra da cui provengono.

Dinamica questa che risulta essere ancora più evidente proprio nel settore enologico, dove la specificità di una produzione che voglia definirsi a tutti gli effetti “unica” è influenzata, in tutto e per tutto, dal terroir. Concetto, quest’ultimo, che non può essere banalmente tradotto con il termine “territorio”, poiché tiene conto di una serie di fattori tra loro concatenati (dal clima alle condizioni naturali, fisiche e chimiche, passando ovviamente per la zona geografica), un insieme di elementi che interagendo tra di essi vanno a caratterizzare un’area ben delimitata, rendendola perciò, unica. Ecco perché il successo di un vino strettamente legato a un determinato territorio porta, necessariamente, anche all’emersione dall’ombra di quel territorio stesso che torna, assieme alle proprie tipicità, a riscoprirsi apprezzabile anche all’interno di quel settore produttivo per troppo tempo ostaggio dei grandi marchi della grande distribuzione organizzata.

La storia che oggi vi raccontiamo, dopo queste lunghe ma necessarie considerazioni, prende avvio proprio dal concetto di località. Siamo nel cuore del centro storico di Matera, in prossimità del Convento dei Domenicani, è qui che nel 1882, nasce la prima cantina della famiglia Dragone. Nel 1920 l’attività si sposta presso via San Biagio, luogo che diventerà pian piano il fulcro del mondo agricolo materano. Trentacinque anni più tardi la prima etichetta; le viti sono a poco più di dieci chilometri dalla città, a Tenuta Pietrapenta. Oggi l’azienda produce intorno ai diecimila ettolitri annui di vino, tutti da vigneti di proprietà, un vino che da quattro generazioni è espressione tipica del territorio materano.

A conferma di ciò il percorso parallelo con la nascita del Consorzio di Tutela Vini Matera DOC, di cui Michele Dragone è socio fondatore, costituito a seguito del riconoscimento ministeriale, ricevuto nel luglio 2005, della denominazione di origine controllata per i vini prodotti nella provincia di Matera, compresa la stessa città, assieme ai comuni della collina materana e il territorio della costa ionica del metapontino. Un nuovo impulso alla produzione vinicola lucana; una leva strategica per lo sviluppo di politiche locali in grado di andare oltre lo spazio d’azione territoriale, affacciandosi a una dimensione più ampia, frutto di reti relazionali, secondo un’ottica che potremmo definire glocale, in cui il globale e il locale possano tornare ad essere due lati della stessa medaglia, operando affinché il primo non soffochi l’impulsi del secondo; attenuandone i processi per la conservazione e la valorizzazione del patrimonio nostrano di ognuno.

Ed è forse percorrendo tale strada che la tipicità può essere riconosciuta e dunque premiata per il suo essere, semplicemente, sé stessa, proprio come nel caso di “Ego Sum”. Io sono, si chiama così il vino che nel 2019 diventa “Campione del mondo rosé da vitigni autoctoni”. Uve primitive e metodo classico: queste le variabili che portano la Basilicata ad essere la protagonista della XII edizione del Challenge Internazionale Euposia, organizzata dalla rivista veronese The Italian Wine Journal. A ciò si aggiunge, dunque, non solo la produzione delle prime bottiglie fregiate dalla DOC, ma anche quella di spumanti che la famiglia Dragone porta avanti dal 1997, con il nobile processo del metodo classico dalla Malvasia Bianca di Basilicata e dal Primitivo di Matera.

Un tributo al territorio, oltre cento anni di un percorso incentrato sulla qualità, elemento che di certo oggi non può costituire l’unica discriminante sul mercato, dovendo essere, almeno in teoria, una sorta di coefficiente costante e naturale, se così la si vuole definire, ma che integrata ad essa il vero racconto del prodotto. Un racconto che porta con sé la vocazione e la predisposizione di un territorio che resterebbe, al contrario, celato a sé stesso e alle proprie possibilità. Un vino, dunque, che possa farsi ambasciatore, espressione e sintesi di una storia unica; una storia che non vada dispersa nel sopracitato calderone della globalizzazione, ma che sia invece distintiva per sé stessa e per le altre ancora.

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