Il museo dell’olio di Colobraro

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Da ottobre a dicembre, a cavallo dell’autunno e, con alle spalle, un sole sempre più tiepido e fugace. I mesi della raccolta; di braccia che si abbarbicano ad altre braccia, nodose, alte e ricche di frutti. I mesi dei conti della resa; delle corse ai contenitori, sperando che non bastino; della macina che schiaccia e libera profumi. Profumi che pizzicano la lingua e bagnano il pane di colori, dal giallo chiaro al verde scuro. I mesi del fermento, del fermento dell’attesa. I mesi dei frantoi.  

È in questi luoghi che ogni anno si consuma e si perpetua la tradizione, lì dove l’olio si fa. Ed è in relazione a tale idea che, un antico frantoio risalente all’800 può farsi museo.

Ma per raccontare questa storia è necessario percorrere una strada, che sale ripida lungo uno sperone roccioso. È da qui che l’innominabile Colobraro domina un ampio tratto della valle del Sinni. Il borgo maledetto che ha fatto della jella la propria fortuna: monachicchi, fattucchiere e legature hanno caratterizzato la vita del “paese senza nome”, tra storia e leggenda, sino alle ricerche etnografiche condotte da Ernesto de Martino durante la spedizione del 1952, il quale trascrisse il volto di Colobraro e delle sue “masciare” in Sud e Magia, consegnandolo all’Italia tutta. La favola nera, adesso, rivive ogni anno nel “Sogno di una notte a … quel paese”. Amuleti, spettacoli teatrali, mostre e racconti, richiamano nel grazioso borgo lucano sempre più turisti, curiosi di immergersi nel travolgente fascino di antichi canti e vecchie superstizioni, in una commistione mai sanata tra sacro e profano, nell’ambito di un inestimabile patrimonio folkloristico e culturale.

Ma l’affascinato e affascinante borgo conserva nel suo centro storico un’altra piccola perla, pensata per raccontare e far conoscere la Basilicata delle eccellenze. Un frantoio risalente alla fine dell’800, di tipo tradizionale e discontinuo con un sistema di estrazione a pressione, al cui interno vengono custoditi una serie di macchinari: la “molazza” a tre macine in pietra; il torchio a vite e la pressa idraulica; giare; strumenti di peso e di misura; vari utensili e suppellettili. Preziose testimonianze di un mondo agricolo in estinzione.

Assieme a questo la capacità e l’intelligenza di restituire alla vita i nostri piccoli borghi, attraverso la valorizzazione del loro percorso storico, culturale e tradizionale. Il segreto sta nel racconto; nelle nuove proposte di un turismo lento, esperienziale e multisensoriale, grazie alla possibilità di rivivere tutte quelle fasi che dalla drupa, piccola e nera, portano all’oro giallo. Visite guidate; lezioni sulle proprietà organolettiche dell’olio evo ed un focus sugli aspetti cromatici e olfatto gustativi. Le attività proposte hanno quindi l’obiettivo di promuovere la corretta cultura dell’olio extra vergine di oliva, trasmettendo il concetto di qualità nelle tecniche agronomiche e nei tempi di raccolta, così come nelle tecnologie di estrazione e di conservazione.

In sintesi, un turismo rurale, che punti a promuovere e rilanciare le realtà locali, assieme al loro inestimabile bagaglio di cultura e tradizione.

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