La Carchiola, il pane di chi non aveva pane

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Per raccontare la carchiola è necessario fare un salto nella storia di qualche secolo fa, o più precisamente tornare alla sera dell’8 settembre del 1694, quando un violentissimo terremoto, di magnitudo 6.8, si abbatte con tutta la sua forza tra le provincie di Avellino e di Potenza, distruggendole e causando oltre seimila vittime. San Fele, Muro Lucano, Brindisi di Montagna, Pescopagano, sono tra i paesi più colpiti. Anche Avigliano, già provata da una devastante carestia, è interessata dal sisma. È da questo momento in poi che il racconto lascia la storia per farsi leggenda: una giovane madre aviglianese per sfamare i propri figli prepara, con i pochi ingredienti a disposizione, la prima carchiola.

La carchiola, oggi certificata tra i Prodotti Agroalimentari Tradizionali della regione Basilicata e inserita all’interno dell’Arca del Gusto Slow Food, è stata per molto tempo l’unico pane per chi il pane non poteva permetterselo, rappresentando la base dell’alimentazione delle famiglie contadine. All’inizio del ‘900 la grande inchiesta sul Mezzogiorno, la cui stesura impegnò tra gli altri Eugenio Faina e Francesco Saverio Nitti, rileva come i contadini lucani mantengano una dieta ancora forzatamente vegetariana, questi affermano di non mangiare pane per cinque o sei mesi l’anno, e di vivere quasi esclusivamente di patate e granoni. È in questo periodo che si registrano maggiori testimonianze sulla carchiola, una semplice focaccia azzima preparata nell’aviglianese con acqua calda e farina di mais, un prodotto povero, succedaneo al pane fatto di frumento, bene di lusso destinato alle tavole dei nobili e dei latifondisti.

La preparazione era compito delle donne, le quali impastavano la farina di mais con acqua bollente, aiutandosi in questa operazione con la radimadia, una sorta di zappetta adoperata per graffiare via l’impasto dalla madia, contenitore simile a un cassetto utilizzato per fare il pane. L’impasto omogeneo veniva appiattito, conferendogli una forma circolare, posto sotto una coppa di metallo, carchèsium in latino da cui il termine carchiola, e adagiato direttamente sulla brace del camino di casa, facendo attenzione a non farlo bruciare; in quanto priva di lievito la cottura richiedeva pochi minuti. In questo modo le donne risparmiavano non solo tempo, da dedicare alle faccende domestiche, ma anche denaro, necessario per portare a cuocere il pane dal fornaio del paese. Solo in seguito, per la cottura, si fece ricorso ad una apposita griglia rotonda, la r’ticula, con al centro un perno per poter girare la carchiola senza spostarla dal fuoco. Le schiacciate venivano consumate subito oppure conservate a lungo sotto le coperte e riscaldate poi sul camino. Gli uomini, principalmente impiegati come contadini, toglievano le carchiole dalla brace e le riponevano in un fazzoletto che portavano con sé a lavoro nei campi o le mangiavano a cena assieme a minestre di verdura o legumi: si usava spesso servirle in un unico grande piatto, da cui poi tutti attingevano.

La carchiola ha continuato a sfamare le umili famiglie lucane fino al secondo dopoguerra quando, a causa della razionalizzazione, il pane di grano duro veniva riservato agli anziani e ai moribondi, lasciando agli altri la carchiola. Oggi, quello che un tempo veniva considerato un prodotto riservato ai ceti meno abbienti, viene man mano reintegrato nell’orizzonte del vasto patrimonio gastronomico lucano, imponendosi soprattutto nella sua versione da street food, farcita con salumi, formaggi e verdure locali, una rivisitazione che la vede ben lontana dal tanto povero quanto semplice alimento di sussistenza che era oltre ottant’anni fa.  

Ma riproporre la carchiola come cibo tipico della tradizione locale non vuol dire solo preservare dal declino la memoria dell’identità rurale e contadina di un popolo. Questa povera focaccella, infatti, non sarebbe mai potuta giungere sulle tavole contadine senza l’introduzione del mais, importato localmente dai coloni di rientro dalle Americhe tra il XVI e il XVII secolo. Nell’ultimo trentennio, però, le trasformazioni socio-economiche hanno comportato anche per il mais indigeno un’accelerata erosione del corredo genetico europeo. Il risultato? Le razze autoctone di granturco, pur avendo rappresentato un’indispensabile risorsa nel sostentamento delle popolazioni locali, con l’avvento degli ibridi, sono state confinate alle aree rurali e montane, dove sono a rischio di estinzione. Solo l’opera dei contadini, infaticabili custodi della terra e dei suoi frutti, ha permesso la conservazione di alcuni ecotipi locali, dai quali oggi è possibile ottenere la carchiola nel suo originario sapore di un tempo. Per contrastare alla base questo processo si è reso, inoltre, necessario avviare un vero e proprio percorso di ricostituzione della “razza locale”, tramite il recupero di ecotipi caratteristici del territorio lucano. Questa l’azione svolta dal gruppo di ricerca della Facoltà di Agraria dell’Unibas, Costituzione e valutazione genetica di una razza locale di mais, denominata Carchiola: «In seguito alla caratterizzazione genetica, morfologica, agronomica ed allo studio della tecnica ottimale di produzione, sono stati scelti gli ecotipi più interessanti per la produzione di farina da destinare alla preparazione della carchiola».

Ecco che il recupero della carchiola parte prima di tutto dalla ricostruzione della varietà locale di mais, dunque dai semi originari, e in ultima istanza, come ogni cosa, dalla terra. Solo l’inarrestabile opera contadina, unita a «un processo di riproposizione di risorse genetiche in termini di innovazione biologica appropriata al nostro territorio», ha permesso con un approccio interdisciplinare di preservare assieme: tradizione; biodiversità, come patrimonio da tutelare e incrementare; ma soprattutto il percorso storico-identitario di un popolo che, per sfuggire alla fame, s’è inventato un altro tipo pane, quando il pane, quello vero, non poteva averlo.

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