La lunga storia del Caciocavallo Podolico

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SUI PASSI DELLA PODOLICA

Millenni di storia e un altro continente. Un lungo percorso per risalire alle origini del caciocavallo podolico, simbolo della tradizione casearia meridionale, e dunque, prima ancora, all’animale che ne permette la produzione, la vacca Podolica. Il racconto di un prodotto che si dipana dall’Asia, terra di origine dell’Uro, per arrivare fino all’Appennino meridionale: la genesi di una razza che ha rischiato la quasi totale scomparsa; le connessioni sociali ed economiche; la divisione, anche zootecnica, tra nord e sud Italia; a testimonianza di come dietro il racconto di un cibo non ci sia mai solo il cibo stesso.

Ma procediamo con ordine puntando il focus sulla vacca Podolica, l’animale che da secoli è entrato a far parte del paesaggio collinare e montano della Lucania, rappresentandone un vero e proprio elemento caratteristico. Una figura intimamente legata al popolo di questa terra anche dal punto di vista simbolico: basti pensare allo stemma del capoluogo di provincia che riporta un bue con in bocca tre spighe, in riferimento tanto alla mitezza quanto alla propensione alla fatica di quell’antica civiltà contadina che siamo stati; o alle varie manifestazioni in cui quest’animale è ancora oggi adoperato, dalle processioni dei tanti carri delle feste patronali sino al Maggio di Accettura o alla sfilata dei campanacci nel carnevale di San Mauro Forte.

Un animale antichissimo, considerato il più diretto discendente del Bos primigenius, anche detto Uro, di certa origine asiatica, diventato comune in Europa già in età antica. Descritto da Erodoto, Giulio Cesare come «abitante dei boschi della Germania», sino ad arrivare a Tacito, che lo cita negli Annales, e a Plinio il Vecchio che lo descrive come «il ferocissimo toro dei boschi». Dal V secolo d.C. questo tipo genetico si diffonde in tutta la penisola, dall’Istria alla punta della Calabria. La razza Podolica (il cui nome deriva da Podolia, una regione dell’attuale Ucraina) è, ad oggi, ciò che di più vicino rimanda a questo antico bovino, estintosi definitivamente nel 1627.

Ma perché è proprio questa razza, riconoscibile dalle sue lunghe e sottili corna a forma di mezzaluna, a divenire simbolo del meridione d’Italia? Dal XIX secolo in poi inizia a delinearsi la grande divisione zootecnica del nostro Paese: il nord Italia privilegia lo sviluppo di bovini da latte e da carne, mentre il sud conserva razze dalla spiccata attitudine al lavoro e, in subordine, da carne.

«Le ragioni di questa divisione sono intuitive: là dove esistono produzioni foraggere abbondanti e dove la meccanizzazione dell’agricoltura è più spinta, l’allevamento bovino si specializza nella produzione casearia e da carne. Al sud invece, dove l’arretratezza dello sviluppo agricolo e le condizioni climatiche e di alimentazione sono particolarmente difficili, la Podolica costituisce una risorsa importante come forza lavoro, grazie alle sue caratteristiche di rusticità, frugalità e resistenza».

La Podolica, infatti, si adatta lì dove altre razze non riuscirebbero a vivere, nutrendosi di cespugli, stoppie e macchia mediterranea, spostandosi sui terreni scoscesi del sottobosco. Il pascolo all’aperto si protrae per tutto l’anno, sarebbe impensabile attuare un allevamento a stabulazione fissa per tale animale che mal sopporta gli spazi ristretti delle stalle. Ed è proprio questo tipo di allevamento allo stato brado a consentire l’ottenimento di un latte di altissima qualità, con una produzione annua molto bassa che si aggira intorno ai quindici quintali. Per quanto riguarda la carne essa è più tenace rispetto a quella di altri bovini alimentati a cereali, ma allo stesso tempo molto più magra, il poco grasso presente è di colore giallognolo, caratteristica addebitabile all’alimentazione ricca di carotenoidi. Carica di vitamine e sali minerali, acidi grassi essenziali come l’omega 3 e l’omega 6, ha inoltre un basso contenuto di colesterolo. I ritmi di accrescimento sono più lenti di quelli riscontrati in altre razze allevate in modo intensivo, basti pensare che i vitelloni crescono poco meno di 900 grammi al giorno, cioè la metà. Ciò comporta un costo per gli allevatori che non viene riconosciuto adeguatamente dal mercato.

«Se la straordinaria adattabilità della razza Podolica, la sua resistenza alle malattie e la sua rusticità ne favoriscono inizialmente la capillare diffusione su tutto il territorio, proprio le sue caratteristiche poco “moderne” (scarsa attitudine alla stabulazione, produzione di latte minima, carni sapide ma tendenzialmente fibrose e dure) ne stanno provocando la vistosa riduzione. Oggi è presente soltanto nelle regioni meridionali (Campania, Calabria, Basilicata e Puglia) e, per di più, è largamente meticciata. Se nel 1983 se ne potevano contare circa 100 mila esemplari puri, oggi sono soltanto 25 mila i capi registrati nel libro genealogico della razza».

Sebbene, quindi, questa razza vada a costituire un importante elemento nel variegato patrimonio zootecnico meridionale, sia per il recupero delle aree marginali e dei pascoli difficili, altrimenti inutilizzati, sia per la produzione di carni di qualità superiore, le logiche del mercato attuale l’hanno portata via via alla quasi totale scomparsa. 

IL CACIOCAVALLO PODOLICO

Presidio Slow Food e inserito nell’elenco dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali: il caciocavallo podolico lucano è il re dei formaggi a pasta filata. A forma di anfora, periforme, deve ovviamente il proprio nome, in primis, all’utilizzo del latte di vacche podoliche per la produzione finale del latticino stesso, e in secundis al meccanismo di stagionatura che lo vede appeso, legato a coppie da una fune di rafia, a cavallo di un asse o di un trave.

Tutto ha inizio con la mungitura delle vacche, operata una volta al giorno, di solito al mattino, e necessariamente in presenza del vitello, in caso contrario difficilmente la vacca darebbe il latte. Il latte crudo viene poi scaldato alla temperatura di 70°C e miscelato con altro latte crudo in quantità tale da permettere il raggiungimento della temperatura, in caldaia, di 40°C. La coagulazione, presamica, si ottiene con aggiunta di caglio di vitello per la tipologia tipicamente dolce, oppure con pasta di agnello o capretto per la tipologia piccante. In seguito alla rottura della cagliata, che la riduce alle dimensioni di un chicco di mais, la pasta viene estratta e bagnata con il siero portato a 60°. Dopo la necessaria acidificazione, essa viene tagliata a fette sottili e filata. Quindi si procede alla formatura tipica, a mano. Finalmente, i caciocavalli, legati in coppia con corda di rafia, sono appesi ad asciugare per un tempo non inferiore ai due giorni. Durante il periodo della stagionatura, che può protrarsi anche fino a quattro o cinque anni per i formaggi di pezzatura maggiore, dai 4 agli 8 kg, le forme di caciocavallo podolico sono pulite delle muffe superficiali con l’utilizzo di un panno.

La crosta si presenta sottile, liscia, di colore paglierino, ambrata con la stagionatura, mentre la pasta è compatta, morbida, elastica, di colore bianco o avorio che, a stagionatura avanzata, diventa dura e di colore paglierino. Un gusto complesso e una intensità aromatica ineguagliabile che solo un latte di qualità come quello di animali podolici bradi può garantire. Una piccantezza che diviene sempre più decisa nel tempo; profumi complessi di pascolo e macchia mediterranea, con lunga persistenza di fiori ed erbe aromatiche (finocchio selvatico, liquirizia, mirto) di cui si nutrono le vacche; caratteristiche sensoriali di notevole interesse che vanno via via maturando con la stagionatura di anni.

Tutto ciò rende il caciocavallo podolico un formaggio nobile, da tavola, generalmente consumato a fine pasto, ottimo se accompagnato con un vino strutturato, tanninico e ricco di corpo come l’Aglianico del Vulture; ma soprattutto un formaggio che non è solo un formaggio, bensì rappresenta il recupero di una razza, di pascoli che altrimenti resterebbero inutilizzati, una sostenibilità ambientale che finalmente scavalca i moderni canoni estetici di un cibo sempre più bello ma sempre meno sano, l’idea che produrre in maniera buona, pulita e giusta sia, ad oggi, ancora possibile.

 

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