Il Pane di Matera: tra culto e tradizione

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LA STORIA

Sacro e profano: il corpo di Cristo tra le mani delle donne che lo impastano. Mito e rito, semina e raccolta, il ciclo delle stagioni e la fecondità. Il pane e il bacio che gli si dà prima di buttarlo via, testimoniano come esso sorpassi la semplice categorizzazione di alimento, l’unione ultima tra lievito, farina, acqua e sale, e si inscriva, invece, in un ambito più ampio, non semplicemente sintetizzabile.

Siamo a Matera, nella Città dei Sassi. Due milioni e mezzo di anni di storia che iscrivono di diritto questo imbuto di case, disposte a gradoni, l’una sull’altra, tra i patrimoni mondiali dell’umanità. Qui, ormai da secoli, il profumo del pane si fa spazio tra strette strade serpeggianti e abitazioni scavate nella roccia: «Delle conserve di grani e lor perfettione, basta di dire che ne si conserva sin’ a diece, dodeci e quindeci anni, come se stesse in una cassa, e per queste conserve dè grani ci è tradizione che questa Città fusse stata granaio del populo Romano» scrive Gianfranco de Blasiis nel 1635, in Cronologia della Città di Matera, testimonianza oggi custodita dall’archivio di stato del capoluogo di provincia lucano.

I numerosi mulini sparsi nella città tra il XIX e il XX secolo, il primo risalente al 1884, danno conferma di come il culto del pane sia fortemente ascrivibile all’economia e più in generale alla vita di questo territorio. Una tradizione risalente al Regno di Napoli, gesti immutati per secoli, rituali scanditi da passaggi fondamentali. Le mansioni prettamente femminili: il recupero del lievito madre e l’impasto, da conservare al caldo, avvolto in una coperta, generalmente sul letto accanto ai bambini che dormono, «scaldato dal calore degli innocenti». La cottura nei forni pubblici, non prima di aver segnato con un timbro in legno il proprio marchio, al fine di assicurarne il riconoscimento. Al fornaio, il compito di incidere con il coltello tre tagli sulla parte alta della pagnotta, a rievocare la Santissima Trinità: la devozione e la religiosità legata a doppio giro con gesti scaramantici e prettamente pagani. E, infine, l’abbraccio del capofamiglia, che stringe al petto il pane e lo affetta portando il coltello affilato verso di sé. Ecco perché la storia del Pane di Matera non è sintetizzabile alla pura e semplice ricerca delle sue origini, è esso stesso, infatti, a disegnare e consegnarci, assieme al culto cui è strettamente legato, un ritratto antropologico della città che l’ha partorito.

LA DENOMINAZIONE IGP

L’utilizzo esclusivo di semola di grano duro, di cui almeno il 20% proveniente da ecotipi locali, come il famosissimo Senatore Cappelli; il lievito madre ottenuto da polpe di frutta fresca tenuta a macerare per 48 ore; sale; acqua e una tradizione secolare. Questi gli elementi che portano alla nascita del Pane di Matera, alla peculiare colorazione giallo paglierino della mollica e alla fragrante croccantezza della crosta bruno dorata. La fermentazione dei batteri del lievito madre è, invece, responsabile della produzione di anidride carbonica che, in quantità superiori rispetto agli altri tipi di lievito, permette non solo una crescita maggiore, ma anche una migliore digeribilità del prodotto finito, conferendo, a quest’ultimo, la tipica porosità difforme della mollica (dai 3 fino ai 60 mm di diametro dei pori). E, ancora, la conservabilità: fino a sette giorni per la pezzatura da 1 kg, e dieci per le pagnotte da 2 kg. Tutto trasposto in due forme differenti, quella alta e compatta con “baciature” ai fianchi, e la più riconoscibile forma a cornetto, derivante dalla necessità di massimizzare il quantitativo prodotto nei forni in seguito alla crescita demografica verificatasi nel rione Sassi tra il ‘700 e l’800. Storiche necessità e usi tradizionali che trovano, nel 2008, il riconoscimento del marchio IGP da parte della Commissione europea.

IN CUCINA

Per rimanere fedeli alle tradizioni occorre gustare il Pane di Matera nella tradizionale “fedda rossa“, la bruschetta con pomodoro, olio e origano. Da ricordare nella tradizione gastronomica locale anche la “cialledda“, la minestra calda a base di acqua, pane, pomodoro, cipolla e un misto di verdure autoctone. Trova spazio, infine, anche un’altra interessante variante: una fetta di pane condita con zucchero e qualche goccia d’acqua, un dolce povero strettamente legato alla cucina contadina di un tempo.

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