Basilicata rurale

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Il Piano Strategico Nazionale classifica la Basilicata come area interamente “rurale”. Tali caratteristiche di ruralità, sono ascrivibili, secondo il PSR (programma di sviluppo rurale) della stessa Regione, «alla sua posizione geografica […] ed alla particolare orografia del suo territorio, che ha costituito un ostacolo alla realizzazione di una capillare infrastrutturazione di collegamento ed influito negativamente sulla possibilità di diffusione di un vero e proprio tessuto industriale». Volendo sorvolare sulle locuzioni “posizione geografica” e “particolare orografia” che, se non si volesse qui aprire il già ampiamente dibattuto tema delle potenzialità territoriali sottostimate, suonano più come una giustificazione alla perpetuata incapacità politica e al rovinoso tentativo di uguagliare il territorio lucano al modello economico del Nord, con un processo di industrializzazione che ha portato con sé, dopo un primo periodo di grandi aspettative, fallimenti e cassa integrazione, e in alcuni casi, le inchieste della magistratura, ci soffermeremo sulla seconda parte del report in cui si afferma che: «la relativamente bassa pressione delle attività antropiche sul territorio ha però consentito la conservazione di un’estrema varietà di habitat naturali e di paesaggi agrari di grande pregio».

Ma qual è oggi il quadro che ci restituisce la Basilicata rurale e quale la chiave affinché la nostra Regione possa preservare, in ottica futura, tale propria identità? E ancora; il concetto stesso di ruralità può tornare ad essere attuale, travalicando la mera spiegazione che lo assegna alla descrizione di paesaggi e spazi geografici, in antitesi al concetto di urbanizzazione, per rientrare a far parte del nostro quotidiano?

Ma partiamo dall’etimologia del termine, che proviene dal latino ruralis, derivato di rus, ruris col significato di “campagna”. Una definizione generica che fa tradizionalmente pensare ad un’area in prevalenza agricola, ma la ruralità non si estrinseca nella sola caratterizzazione ambientale del territorio. Essa coinvolge criteri sociologici: dal tipo di relazioni che si stabiliscono fra i componenti della società, sino a quelle tra uomo e ambiente, presupponendo un’atmosfera sociale che coinvolge, a vario titolo, tutta la popolazione, con un forte senso di appartenenza al territorio e alla comunità locale, tanto da poter parlare di microcollettività.

Motivo per cui la crescita economica di tali realtà non può seguire la direttrice individuata per le zone urbane, ma necessita di una differenziazione tale per preservarle dalla massificazione urbana e conservare, con esse, il sistema agro-ecologico che rappresentano. In sintesi, il divario tra comunità rurale e urbana non può essere colmato mediante la conversione della prima realtà verso la seconda.

Affinché ciò accada è necessario che si affermi la consapevolezza che la ruralità non risiede, esclusivamente, tra campi arati e vecchi attrezzi del mestieri ormai in disuso. Agire sulla base di tale parallelismo equivarrebbe a condannare quei territori ad una cristallizzazione nel passato, rassegnandoli, definitivamente, a una realtà statica, senza possibilità di progresso. Essa è, invece, una forma di espressione culturale e sociale di quello che fu il mondo contadino come totalità di strutture e concezioni dell’universo che mai potrà scomparire.

«La civiltà rurale rappresenta un’epoca storica, che ha le sue radici nella preistoria e la sua durata cronologica non può dirsi finita né finibile – scrive Giovanni Battista Bronzini in uno dei suoi saggi della serie Mezzogiorno Società Cultura – Essa […] continua a costituire (e non ce ne avvediamo) nel pensiero e nel linguaggio la nostra cultura di base». 

Qual è dunque il ponte di passaggio che possa portare la nostra realtà, in primo luogo, ad un riconoscimento di se stessa in quanto tale, ed in secondo, al riscatto da un passato che l’ha vista marginale ed emarginata. Esso potrebbe forse rivelarsi nel collegamento tra la conservazione di varietà locali, anche a tutela della valenza storica delle stesse; promozione dell’agricoltura di qualità; e sviluppo socio economico del territorio che ospita quell’agricoltura. In sintesi, l’avviarsi ad un processo di valorizzazione di prodotti custodi dell’identità rurale, sottraendo il mercanteggio degli stessi alle grandi catene di distribuzione.

Buono, pulito e giusto. È questa la sintesi che anima il movimento Slow Food. Non solo cibo, dunque, ma visione di sviluppo, con un’equa distribuzione del valore lungo tutta la filiera e assieme, strumento di lotta contro la perdita della biodiversità, attraverso la promozione delle produzioni di piccola scala, orientate alla protezione di razze animali e varietà vegetali, talvolta meno produttive, ma con intrinseche capacità di adattamento a un determinato contesto pedoclimatico. Ed, infine, la consapevolezza che il racconto del cibo possa divenire, non solo valida documentazione di attività tradizionali legate alla gastronomia, ma un racconto di culture ed identità. 

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